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I regnanti di Tavolara

La famiglia Bertoleoni in una foto d’epoca

 

In questa foto  d’epoca figura la famiglia reale dei Bertoleoni.

I Bertoleoni, in effetti, non figurando negli  Elenchi Nobiliari  ufficiali del regno  d’Italia, non potrebbero  essere considerati dei nobili, ma si  sa un titolo  non si  nega a nessuno.

Loro  stessi, a riprova del sangue blu  che scorre nelle vene, riportano  che la foto di  famiglia ad inizio  articolo  è la stessa che è esposta a Buckingham Palace, tra le immagini  di  tutte le dinastie del mondo.

Se fosse vero, e forse lo è, il loro ex – regno era quello più piccolo del mondo, in quanto occupava la superficie di un isola della Sardegna: Tavolara.

La famiglia è originaria di  Genova che, dalla Corsica,  si  trasferì dapprima nell’arcipelago  della Maddalena ed infine sull’isola di  Tavolara.

Siamo all’inizio  dell’Ottocento, quando Giuseppe Bertoleoni arriva a stabilirsi  a Tavolara dedicandosi  all’allevamento  di  capre.

La leggenda, per metà storia, inizia quando re Carlo  Alberto di Savoia, trovandosi  nel 1836 a Tavolara, volle donare, forse per simpatia o forse per altro  di cui non si  conosce la verità, il feudo di  Tavolara a Giuseppe Bertoleoni.

L’atto non arrivò mai alla prefettura di Sassari, ma questo non impedì che l’investitura fosse riconosciuta verbalmente dai diretti interessati e, magari ingigantita da altre voci non propriamente disinteressate (la nobiltà ha bisogno  di una corte).

Con il figlio  di  Giuseppe Bertoleoni, Paolo I, il regno  di  Tavolara ebbe il suo massimo numero  di  abitanti: sessantuno persone (non è dato  sapere se pagassero  qualche forma di  tassa al  regnante).

Il regno  termina con la morte di Carlo II di  Bertoleone nel 1993.

Oggi  la ricchezza dell’isola di  Tavolara è nel  turismo  e nel  demanio militare.

Almeno fino  al 1994 discendenti  della famiglia Bertoleoni gestivano  un ristorante a Tavolara.

 


 

 


 

L’onda assassina di Boston era melassa

Un immagine del disastro di Boston del 15 gennaio 1919 Credit: Boston Public Library

Un immagine del disastro di Boston del 15 gennaio 1919
Credit: Boston Public Library

 

Se non fosse che nell’incidente accaduto  a Boston il 15 gennaio  del 1919 vi  furono  21 vittime e 150 feriti, oltre ai  danni subiti  da edifici, si potrebbe pensare che quello che accadde sia stata la trama di una sceneggiatura di un b-movie fantascientifico.

In effetti, l’onda di  melassa alta più di  sette metri, che si  riversò in una zona della città di  Boston, ricorda la massa gelatinosa del  film Blob –  Fluido  mortale diretto  da Irvin S. Yeaworth Jr. nel 1958.

Ma cosa è successo  quel  giorno di novantasette anni fa?

La causa fu il crollo  di un serbatoio  di  stoccaggio  della melassa alto 15 metri  e largo 27 metri: da esso  fuoriuscirono  nove milioni  di litri della sostanza che si  riversò nelle strade adiacenti  ad una velocità di 15 metri  al  secondo.

Le vittime invischiate nel  fluido  subirono una morte atroce, quasi  come se fossero  stati inghiottiti  dalle sabbie mobili, altri nel crollo  delle abitazioni che non resistettero alla forza dell’onda.

Oggi  gli ingegneri hanno fornito la probabile causa del  crollo  del serbatoio: due giorni  prima della disgrazia, nel  serbatoio  furono immessi litri  di melassa calda su  di uno  strato  più freddo. La mescolanza tra i liquidi caldi  e freddi  generarono forze fluidodinamiche che si  riversarono  sulle pareti della cisterna facendola collassare.

La dimostrazione di  questa ipotesi  sarà presentata  in un prossimo  convegno della American Physical Society of Fluid Dynamics a Portland, Oregon.

 


 

Ricordando  Steve McQueen protagonista principale di   Blob – Fluido  mortale 

 

 


 

La Germania al Polo Nord durante l’ultima guerra mondiale

resti  della base metrologica tedesca

Resti della base meteorologica a tedesca

Per una volta gli  archeologi  nella loro  ricerca non hanno portato  alla luce reperti o strutture vecchi  di  secoli, ma resti di una base segreta tedesca risalenti  alla seconda guerra mondiale.

Nell’isola di  Alexandra Land, nel  mare di Barents a 1.100 chilometri  dalla città di  Arkhangelsk – Polo Nord), un team di  ricercatori  russi è riuscita ad esplorare una stazione meteo tedesca risalente al 1943.

L’esplorazione, avvenuta in agosto, è stata possibile perché in quel periodo il clima è decisamente più caldo (ma siamo  sempre al Polo Nord) e parte del ghiaccio  e della neve che ricopriva la base militare tedesca si è sciolta.

Tra i reperti sono  stati  ritrovati strumenti scientifici,  uniformi, armi  e munizioni nonché, curiosamente, tra i testi  di  meteorologia anche quello di un classico  dei  romanzi di  Mark Twain: Tom Sawyer.

La base che, in piena operatività, contava tra meteorologi  ed operai  una decina di  persone, venne evacuata nel 1944.

Essa era parte di una rete segreta di  stazioni  artiche che monitoravano  le condizioni  climatiche del  nord Europa ai  fini  delle operazioni  strategiche dell’esercito tedesco.

Tra le curiosità, oltre ai  gusti  per i classici di Mark Twain, è quella di  aver trovato delle scatole di  sardine provenienti  dal  Portogallo, con etichette in inglese e vendute nel  mercato Americano. Si presume che a questa dieta, gli occupanti  della base, abbiano  aggiunto  anche la carne proveniente dall’uccisione di  orsi  polari (contraendo la trichinellosi).


 

Un nome per l’uomo dietro alla “Maschera di Ferro”

Fotogramma tratto dal film "La Maschera di Ferro" di Allan Dwan

Fotogramma tratto  dal    film “La  Maschera di Ferro” di Allan Dwan

 

Chi  era lo  sfortunato individuo che, nella Parigi  del 1703 durante il regno di  Luigi XIV,  venne imprigionato  ed il cui  volto  nascosto  dietro  una maschera di ferro?

A parte che la maschera non era di  ferro, bensì di  velluto nero, la leggenda sull’identità dell’uomo  ebbe inizio  quando Alexander Dumas padre, raccogliendo  la testimonianza di  Voltaire imprigionato per un breve periodo  alla Bastiglia, ne scrisse inserendolo  come personaggio  nella trama del suo romanzo Il visconte di Bragelonne.

Voltaire, in effetti,  durante la sua prigionia nella Bastiglia, raccolse i  racconti  delle guardie del carcere che parlavano, per l’appunto, di un carcerato trattato molto  bene (rispetto  allo  standard riservato  agli  altri galeotti) però con il viso celato  da una maschera.

Voltaire, alla conclusione delle sue ricerche, affermò che egli non era altro che il fratello  gemello di  Luigi XIV, la stessa tesi utilizzata per il  film del 1998 “La maschera di  ferro” del  regista Randall Wallace con Leonardo  Di Caprio  come interprete principale.

Oggi è il docente di  storia, presso l’Università  della California,  Paul Sonnino ad avanzare una nuova ipotesi  sulla vera identità dell’ uomo  dalla maschera di  ferro.

Paul Sonnino sull’argomento ha scritto un libro: “The Search for the Man in the Iron Mask: A Historical Detective Story” (Rowman & Littlefield, 2016).

in esso  viene svelato il nome di Eustache Dauger, un semplice valletto del tesoriere del cardinale Mazzarino, e che la sua detenzione fu a causa di “rivelazioni inopportune”, da parte del  cameriere, sui  conti finanziari del cardinale.

Detto  questo, rimane un dubbio: se è vero  che dietro  la maschera di  ferro vi era l’identità di un semplice cameriere, perché imprigionarlo per tanti  anni, quasi  trenta, se la soluzione più ovvia (per il potere di  allora) sarebbe stata quella di  far sparire in maniera definitiva lo  scomodo  testimone?

Dubbi  e ancora dubbi: nel  frattempo si può  guardare il film del 1929 “la maschera di  ferro”   del regista Allan Dwan

 

Il canto de “La dottrina di Fort Monroe”

Vignetta satirica dell'epoca che raffigura la "Dottrina di Monroe" attraverso la fuga di uno schiavo verso la libertà tra le mura del forte

Vignetta satirica dell’epoca che raffigura la “Dottrina di Monroe” attraverso la fuga di uno schiavo verso la libertà tra le mura del forte

 

Fort Monroe è stato un sito militare molto importante durante la guerra civile americana, sia per la sua posizione di  controllo riguardo il canale di  navigazione tra la baia di Chesapeake e quelli  della baia di Hampton Roads ma, soprattutto, una via di  salvezza per gli  schiavi  di  colore in fuga dai  territori  confederati.

Infatti, con “La dottrina di Fort Monroe”, il generale Benjamin Franklin Butler il 27 maggio 1861 prese la decisione di  considerare tutti gli  schiavi  fuggitivi  come “prede di  guerra” e quindi  non restituibili ai loro  ex – padroni.

Liberati dalla tirannia sudista, gli uomini di  colore  vennero utilizzati per i lavori  di  manutenzione e rinforzo  del presidio militare che, intanto,  venne ribattezzato con il nome di  Fort Freedom.

Dalla storia ad un mito creato  intorno alla canzone “Go Down Moses” che divenne l’inno  di  battaglia di questi uomini ritornati liberi.

Secondo una recente ricerca  di  alcuni  storici americani,  nel  testo  di Go Down  Moses era celato un codice contenente istruzioni segrete per la fuga verso la libertà.

Quest’inno ha comunque avuto un grandissimo  successo nella musica afro –americana, in particolar modo nello  spiritual: tra le sue versioni quella di Louis Armstrong è certo una delle  più famose.

Buon ascolto.

 


 

La “generosità” di un dittatore

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Tra il 6 luglio  ed il 15 luglio  del 1938 ad Evian – les – Bains (Francia) si  tenne una conferenza internazionale voluta dal presidente degli  Stati Uniti Franklin D. Roosevelt.

Tema di  quell’incontro era la discussione, insieme alle soluzioni  possibili, per il dramma dei  rifugiati  ebrei in fuga dalla Germania nazista. La gestione di quei profughi, in costante aumento, doveva essere gestito attraverso canali di emigrazione gestiti  dai  singoli  governi partecipanti  che si impegnavano, proporzionalmente alle loro capacità e dimensioni  territoriali, ad accogliere gli  ebrei in fuga.

Tra le nazioni  presenti  alla conferenza di  Evian    era presente anche la delegazione della   Repubblica Dominicana, governata da  Rafael Leònidas Trujillo giunto  al potere con metodi decisamente anti – democratici.

Eppure, nonostante la fama di  dittatore che Trujillo si  era aggiudicato nello scenario politico internazionale, egli concesse il visto per l’espatrio  dalla Germania  a circa settecento  ebrei che trovarono rifugio  a Sosua un insediamento  agricolo  della Repubblica Dominicana.

Non fu  certo per motivi  umanitari: nel 1937 il dittatore dominicano si macchiò del  sangue di  diecimila haitiani (se non di più) che vivevano nella zona di  confine tra la Repubblica Dominicana ed Haiti.

Il perché di  quel  genocidio è da ricercare sia nelle motivazioni  razziali (xenofobia nei  confronti  di persone di colore) sia come “punizione” nei  confronti  di  Haiti che,  a sua volta, accoglieva i profughi  dominicani in fuga dalla dittatura in atto nel proprio  Paese.

Quindi, per i commentatori di allora e per gli  storici  di oggi, l’aver accolto profughi  ebrei  era per Trujillo un modo  per ripulire la sua figura dopo  il massacro  degli  haitiani.

Forgiving MàXIMO Rothman è il noir di  esordio dello  scrittore A.J. Sidransky finalista al  National Jewish: la storia inizia con un omicidio di un novantenne sopravvissuto  all’Olocausto e si dipana seguendo le pagine del diario  della vittima che portano  fino  a Sosua.

Il libro non è stato ancora tradotto in italiano.

 

“Voci censurate”: i dubbi dei soldati israeliani

Soldato israeliano  e civili  arabi  durante la Guerra dei  Sei Giorni (giugno 1967)

Soldato israeliano e civili arabi durante la Guerra dei Sei Giorni (giugno 1967)

 

Sono trascorsi  ormai  quarantotto  anni  da quel lontano  giugno  del 1967 quando la coalizione formata da Egitto, Siria e Giordania attaccò Israele.

La storia è quella della  vittoria di Israele e della conseguente conquista della penisola del Sinai, della Cisgiordania e della Striscia di  Gaza.

I soldati di  allora,  come è facile immaginare,  furono  accolti in patria come eroi.

Non si parlò mai  di loro e dei  traumi  che, come in ogni  guerra, ogni  soldato  porta con sè.

A sollevare questo  velo  furono Avraham Shapira e Amos Oz i quali, viaggiando  per i  kibbutz e intervistando i militari in congedo, scoprirono come molti  di  essi provavano dubbi e ansia per il modo  in cui venivano  trattati i civili  arabi.

Il film documentario  “Censored Voices” riporta per intero  il contenuto  di  quelle interviste che furono in parte censurate dai  vertici  dell’esercito israeliano.

Il film, presentato in anteprima al  Sundance Film Festival di  quest’anno, offre anche lo  spunto per dare voce ai militari israeliani che, riferendosi  all’attuale situazione di politica internazionale, esprimono una forte preoccupazione per il futuro della loro  nazione.

 

 

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