CategoryScienza&Tecnologia

Non è poi così monotono Caronte

rappresentazione artistica della superficie di Plutone con Caronte all'orizzonte "ESO-L. Calçada - Pluto (by)" di ESO/L. Calçada - Pluto (Artist’s Impression). Con licenza CC BY 4.0 tramite Wikimedia Commons - https://commons.wikimedia.org/wiki/File:ESO-L._Cal%C3%A7ada_-_Pluto_(by).jpg#/media/File:ESO-L._Cal%C3%A7ada_-_Pluto_(by).jpg

rappresentazione artistica della superficie di Plutone con Caronte all’orizzonte ESO-L. Calçada – Pluto

È stata una sorpresa per gli  scienziati  della Nasa che, analizzando le immagini  del  maggiore dei  cinque satelliti  di  Plutone e cioè Caronte, non si  sono ritrovati  davanti  ad un mondo monotono  formato da crateri   sparsi su  di un territorio  desertico, quanto piuttosto un paesaggio fatto  di montagne e canyon.

Le foto ad alta risoluzione, scattate dal  satellite della Nasa New Horizons il 14 luglio scorso, evidenziano un vasto  sistema di canyon esteso per più di 1.000 miglia sulla superficie di Caronte.

In basso una delle immagine della superficie di  Caronte inviate alla Nasa da New Horizons.

caronte 02

 

Collegandoci al tema dello spazio, e nel giorno  seguente alla morte di  David Bowie, abbiamo  pensato  ad un piccolo  contributo  alla memoria dell’artista.

 

Il trisolfuro che piacerebbe a Scrooge McDuck

131015

Se Paperopoli esistesse, sicuramente il suo papero  più ricco (Paperon de’ Paperoni:  per chi  è  a digiuno sui nomi della famiglia dei paperi disneyani) avrebbe finanziato la ricerca che,  nella realtà, ha svolto il Cnrs francese (l’equivalente del nostro Cnr): il modo con il quale si  creano  le miniere d’oro.

Si  sa che l’oro può trovarsi in alta concentrazione in alcune miniere,  di  cui  la più grande si  trova in Indonesia (Grasberg Mine) con una produzione di 44,912 tonnellate di oro  puro (dati  riferiti all’anno 2011), ma non si  comprendeva il perché di  tale abbondanza.

L’oro è l’elemento molto inerte: non è intaccato dalla maggior parte dei  reagenti chimici mentre con il mercurio  forma un amalgama. Per questa sua caratteristica è difficile pensare che i normali  fluidi geologici potessero  funzionare da “nastro  trasportatore” per l’oro. Fintanto  che, nel 2011, venne scoperto lo  ione trisolfuro (S3).

Il team franco – tedesco  che scoprì in laboratorio  lo ione trisolfuro, accertò che esso  era molto stabile in forma acquosa e che, quindi, scorrendo negli  strati  geologici  trasporta con se i metalli  nobili  tra cui, appunto, l’oro facendolo depositare nelle miniere.

La scoperta dell’ S3 potrebbe anche essere utilizzata per affinare i processi  di  estrazione dell’oro.

Scrooge McDuck (alias Paperon de’Paperoni) ci  sta già pensando al suo  utilizzo  pratico.

 

Klondike? No, è 2011 UW – 158

Immagine dell'asteroide 2011 UW - 158

Immagine dell’asteroide 2011 UW – 158

 

La nuova “corsa dell’oro” si terrà nel profondo  cosmo,  dove alcuni  asteroidi di  diverse dimensioni  sono ricchi  di oro e di  altri  metalli pregiati: delle vere e proprie miniere viaggianti.

Come, ad esempio, 2011 UW-158 l’asteroide largo poco  più di  500 metri il cui  nucleo  sembra custodire la bellezza di novanta milioni  di tonnellate di platino per il valore corrispettivo  di 5.000 miliardi  di  euro.

Naturalmente estrarre metalli preziosi  nello  spazio  non è la stessa cosa che farlo  sulla Terra: non per questo l’idea spaventa alcuni  “visionari” (estremamente ricchi) come il co-fondatore di  Google Larry Page e il regista James Cameron.

I due, nel 2010, hanno fondato  la società Planetary Resources con lo scopo  di  lanciare satelliti progettati per estrarre i minerali preziosi dagli asteroidi.

Pura fantasia e spreco  di  denaro?

Eppure Google e film come Avatar ci  dicono  propri il contrario: fare investimenti  su  quello  che oggi  sono solo  idee domani, chissà, potrebbe essere il nuovo Klondike.

 

 

Per avere più fresco bisogna aspettare il prossimo “Minimo di Maunder”

150715

Non sarà una consolazione per i prossimi giorni in cui  il termometro salirà fino a sfiorare i 40°, ma a detta degli scienziati nei prossimi  quindici  anni il clima virerà verso una mini-glaciazione.

Siccome poi non siamo mai  contenti immaginando, quindi, un futuro in compagnia di orsi  polari  e pinguini, va detto  subito che ciò è solo un’ipotesi  basata su  di un nuovo  modello  matematico della professoressa Valentina Zharkova (Northumbria University –UK), che predice  con maggior precisione i  cicli  solari e l’attività magnetica del nostro  astro.

La scienziata, in base al  suo modello proposto all’Astronomy National Meeting in Galles tenutosi in questo  mese, ha  predetto  che l’attività magnetica solare scenderà al 60 per cento tra il 2030 ed il 2040: questo  comporta l’idea che, abbassandosi l’attività solare, di  conseguenza si avrà l’inizio di  un ciclo “glaciale”.

Nel passato, tra il 1645 ed il 1715, si  ebbe un decremento  dell’attività solare cioè venne osservato che il numero  delle macchie solari fu molto  basso.

Il “Minimo di  Maunder” – nome dato a quel particolare periodo  e che prende il nome dall’astronomo olandese  Edward Walter Maunder il quale per primo  scoprì la mancanza di  macchie solari – concise con quello  che venne definito la piccola era glaciale che coinvolse l’Europa ed il Nord America.

Forse sarà il caso  di prendere lezioni  di  sci per affrontare gli  anni  del prossimo “Minimo di Maunder”.

Ai batteri piace la vita arida

il deserto  di  Atacama

il deserto di Atacama

Le previsioni  meteo  per i prossimi  giorni riportano  temperature in rialzo ovunque che, associate all’alto tasso  di umidità, daranno  la sensazione (sgradevole) di un caldo prossimo  ai limiti  della sopportazione.

Naturalmente e ciò che capita ogni  anno essendo  sopraggiunta da poco l’estate.

Volendoci  consolare,  comunque, possiamo  pensare a quei  luoghi  dove il caldo, questa volta veramente “infernale”, è presente tutto l’anno: ovviamente parliamo  dei  deserti.

Anche qui, però, bisogna fare una specie di  classifica in base alle temperature e all’aridità del  suolo: il campione in assoluto risulta essere il deserto  di Atacama nel nord del  Cile. In questo  deserto le condizioni  climatiche sono  così estreme da considerarsi  prive di ogni  forma di  vita.

Eccezione fatta per i  batteri: infatti, a seguito  delle ricerche di un team di  scienziati  cileni, sono  stati  ritrovato diverse forme   di  vita batterica, soprattutto di gruppi  appartenenti  agli Actinobacteria,  presupposto per ridefinire il limite di  “aridità” per cui  è ancora possibile trovare la vita.

Ciò comporta che anche in luoghi estremi al  di  fuori  del nostro pianeta, come ad esempio  Marte, potrebbe essere possibile la scoperta di una forma di  vita elementare come quella batterica.

[mappress mapid=”19″]

I misteriosi crateri siberiani

Uno dei crateri presenti  nella penisola di Yamal (Siberia)

Uno dei crateri presenti nella penisola di Yamal (Siberia)

L’estate scorsa in Siberia alcuni  pastori  di  renne scoprirono  dei misteriosi  crateri giganti  di cui non si supponeva l’esistenza.

Ad essi  si  aggiunsero, attraverso  la visione di immagini satellitari, altri crateri circondati  da strutture geologiche circolari più piccole.

I  crateri  si  trovano in una zona compresa tra la penisola di Yamal  e quella vicino  alla penisola di Taimyr.

È l’origine  di questi  crateri (di  cui  due, nel  frattempo,  si  sono  trasformati in laghi) che preoccupa gli  scienziati; molti  di loro  pensano  che siano  stati  generati da esplosioni  di  gas ad alta pressione (metano o  biossido  di  carbonio) rilasciati  dallo  scioglimento  del permafrost originato, a sua volta, dal  cambiamento  climatico  che ha innalzato la temperatura atmosferica.

Naturalmente il fenomeno desta preoccupazione perché può avvenire ovunque vi  siano  fonti di  gas naturale soggette allo  scioglimento  del permafrost, anche in zone più popolate come in Alaska e Canada nord-occidentale.

 

 

Non è sangue quello che scorre in Antartide

The Blood Falls seeps from the end of the Taylor Glacier into Lake Bonney. The tent at left provides a sense of scale for just how big the phenomenon is. Scientists believe a buried saltwater reservoir is partly responsible for the discoloration, which is a form of reduced iron.

Non è certo un “fiume di  sangue” riportata dall’immagine ma un fenomeno naturale visibile in Antartide, in particolare nel punto in cui  le cascate del ghiacciaio Taylor confluiscono nel  lago Bonney.

Il fenomeno  è dovuto al ferro  contenute nell’acqua salata di un fiume sotterraneo che, una volta giunto in superficie e mescolandosi  con  l’ossigeno atmosferico, si  colora di  “rosso  ruggine”.

Ad arricchire di  ferro  le acque è l’azione disgregante dei  batteri  sulla roccia.

Per gli scienziati tutto  questo  porta a considerare il fatto  che il sottosuolo  dell’Antartide conserva  un ampio ecosistema ancora  da scoprire e studiare.

Ciò che fa scivolare le placche tettoniche

La mappa mostra le 15 placche tettoniche del pianeta

La mappa mostra le 15 placche tettoniche del pianeta

Gli  studi  geologici  hanno  sempre detto  che la crosta terrestre è costituita da almeno  15 placche tettoniche che, spostandosi, hanno  creato  catene montuose, vulcani e, purtroppo, anche zone sismiche.

Ma l’esatto meccanismo con cui le placche si muovono  era rimasto un mistero  fino  ad oggi, e cioè quando un nuovo  studio ha evidenziato  come le placche scivolino  su  di uno  strato di  roccia “morbida”, spesso sei miglia, posto  tra la base delle placche e la porzione superiore del mantello  terrestre (lo strato di  roccia fusa intorno  al nucleo del pianeta).

Gli  scienziati per la loro  ricerca hanno utilizzato la dinamite per generare onde sismiche nella zona meridionale del North Island (Nuova Zelanda), la quale si trova al  di sopra di  quella che viene denominata “Pacific Plate”.

Le onde sismiche che viaggiavano  attraversando  la Pacific Plate, sono  state mappate ed i  dati ottenuti  sono  stati utilizzati per creare un’ immagine la più dettagliata possibile di una placca tettonica oceanica.

I dati  hanno  evidenziato  come la velocità delle onde sismiche era notevolmente rallentata incontrando  la base della placca: da qui la certezza che esse abbiano  attraversato lo  strato “gelatinoso”  di rocce semi-fuse tra placca e mantello che funzionerebbe come lubrificante.

 

 

Una miniera nella profondità dell’oceano Atlantico

I noduli  di  manganese scoperti  nella spedizione scientifica in Atlantico nel  gennaio 2015

I noduli di manganese scoperti nella spedizione scientifica in Atlantico nel gennaio 2015

 

Si può dire che è stata una “pesca miracolosa” quella effettuata dagli scienziati a bordo  della nave oceanografica tedesca Sonne, avvenuta nell’oceano  Atlantico, a centinaia di chilometri  ad ovest di Barbados, lo scorso mese di gennaio.

Nella slitta utilizzata per il dragaggio del  fondo oceanico il contenuto non è risultato di natura animale, bensì di natura minerale: sfere di metalli pesanti  delle dimensioni  che andavano da quelle di una pallina da golf a quelle di una palla da softball. Immagini trasmesse dalle fotocamere della slitta hanno mostrato un vasto  campo  di  questi  noduli composti  per lo più da manganese, che risulta essere  il più grande deposito  finora scoperto nell’Atlantico.

Il geologo Colin Devey, responsabile scientifico della spedizione patrocinata dal GEOMAR Helmholtz Centre for Ocean Research di  Kiel  (Germania), ha confermato l’eccezionalità del  ritrovamento ribadendo  che, fino  ad oggi, i più grandi  giacimenti di questo tipo  di noduli sono localizzati nell’oceano  Pacifico.

L’età di  alcuni  di questi noduli  può risalire fino  a 10 milioni  di  anni  fa. Considerando  che la loro crescita è di  quasi cinque millimetri ogni milione d’anni,  si può avere uno  spaccato  di  quello  che poteva essere la conformazione geologica dell’ambiente marino  nelle ere passate.

Rimane, comunque, un mistero  di  come si  siano  formate queste sfere.

Insieme al manganese, la composizione delle sfere è costituita da rame, nichel e cobalto. Insieme a questi  elementi  vi è anche la presenza di  quelli denominati come terre rare fondamentali  per la tecnologia utilizzata negli smartphone ed altri  dispositivi elettronici.

Quest’ultimo fattore ha innescato un dibattito sul rischio  ambientale qualora si  decidesse di operare l’estrazione dei noduli  nelle acque profonde degli oceani:  gli stessi  scienziati  della GEOMAR hanno  dichiarato  che, prima di iniziare potenziali azioni  estrattive, bisogna approfondire la conoscenza delle dinamiche ambientali  delle acque profonde degli  oceani.

 

 

 

Più è vecchio e più c’è vita?

Rappresentazione artistica del  sistema solare Kepler-444

Rappresentazione artistica del sistema solare Kepler-444

 

È un giorno inimmaginabilmente molto lontano ma, allo stesso  tempo, porterà ad una tragedia ineludibile: lo “spegnimento” del nostro  Sole.

Per allora, come ogni buon film di  science fiction insegna, l’umanità avrà trovato  dimora su  altri pianeti  del  tutto  simili alla nostra Terra.

Fino  allora, godendo ancora dell’abbronzatura che il nostro astro ci regala ad ogni  estate, è buona cosa cercare nell’Universo queste “nuove case”.

La sonda Keplero dal 2009, anno  di  lancio da parte della NASA, ha egregiamente svolto il suo lavoro  di  ricerca di  esopianeti  nel  cosmo: sono 4.200 quelli  candidati ad ospitarci nel  futuro (sempre che non siano  già abitati  da altri inquilini di cui non si può conoscere il grado  di  tolleranza verso lo “straniero”).

L’ultima scoperta del Kepler Space Telescope è quello  di un sistema solare distante 117 anni  luce dalla Terra. Questo  sistema solare è composto  da cinque pianeti  rocciosi che ruotano  intorno  ad una stella chiamata Kepler-444 dell’età di 11,2 miliardi  di  anni e, quindi, vecchia più del  doppio  del Sole.

Va subito detto, però, che i  cinque pianeti orbitano intorno a Kepler-444 in un orbita che non permette loro  di  rientrare nella cosiddetta “Goldilococks zone”: cioè quella regione di  spazio attorno  ad una stella che, pur essendo calda, permette l’esistenza di oceani  e, possibilmente, di  vita.

Allora perché questo  sistema solare è importante per la ricerca di  vita aliena?

Questo  ragionamento si  basa sul  fatto che, parlando  dell’evoluzione della vita sulla terra, sono  occorsi  quattro miliardi di  anni, pianeti  ancora più antichi,  del tuto  simili  alla Terra, possono ospitare civiltà tecnologicamente evolute.

Per alcuni  scienziati, però, l’età di un pianeta non è paradigmatico alla presenza civiltà evolute: la nascita della vita da tantissimi  fattori di  cui l’antichità, o  meno, rappresenta solo una piccola parte delle possibilità.

© 2024 24Cinque

Theme by Anders NorénUp ↑