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L’Atlante degli uccelli nidificanti del Gran Sasso e Monti della Laga

 

Il Parco  Nazionale del  Gran Sasso  e Monti  della Laga  da pochi   anni  dotato  di un nuovo  strumento  di  conoscenza e di  studio  rivolto  particolarmente agli  appassionati di birdwatching e studiosi naturalisti: l’Atlante degli Uccelli Nidificanti  nel Parco.

L’Atlante è composto  da un database che registra la presenza, densità e localizzazione delle specie nidificanti ma,  per completezza dei  dati offerti,  anche delle specie migranti oppure osservate solo occasionalmente nell’area del Parco.

Lycosa aragogi: l’incubo di Harry Potter è realtà

Lycosa aragogi

 

Sarà anche irrazionale la paura verso i ragni (Aracnofobia), ma chi  ne è vittima, alla vista di un ragno, non si  ferma a pensare ai  significati  reconditi  della psiche umana, quanto piuttosto a mettere più distanza possibile tra lui  e  l’aracnide: in pratica viene messa  in atto  una fuga precipitosa.

Quindi è comprensibile il disagio di  chi spettatore di una puntata della saga di  Harry Potter (Harry Potter e la camera dei  segreti),  si  è confrontato  con le immagini  riguardanti le misure extralarge di Aragog (Acromantula definizione tratta dal  lessico  zoologico potteriano) ed i suoi  figli.

In realtà vi  sono  persone (non poche) che adorano  i ragni  fino a farne animali  da compagnia ma, tralasciando  il fatto che avere un cane o un gatto come amico è senz’altro più soddisfacente dal punto  di  vista empatico, è interessante conoscere qualcosa di più su  questi (poco) graziosi componenti  del  regno  animale.

Alizera Naderi, entomologo  iraniano, ha da poco  scoperto nella regione montagnosa di Kerman (sud -est dell’Iran) la tana di una nuova specie di  ragno lupo : il ricercatore, probabilmente anche fan  di  Harry Potter, ha deciso  di  chiamare il ragno Lycosa aragogi in onore di  quello inventato dalla fantasia della scrittrice J.K Rowling.

Lycosa aragogi ha un corpo lungo poco  meno di  tre centimetri (zampe escluse): quindi molto più piccolo di  Aragog ma sempre di misura ragguardevole per gli standard normali legati  alla realtà.

La sua tattica di  caccia, come quella di  altre specie di  ragno lupo (in Italia la Lycosa tarantula), non prevede la fabbricazione di  ragnatele per catturare le prede: in questo  caso la caccia avviene di  notte quando il ragno  esce dalla sua tana per inseguire la preda.

Essi hannp una capacità visiva superiore rispetto  agli  altri  ragni: quattro  degli otto  occhi  del  ragno lupo hanno dietro  alla retina un tappeto iridescente simile a  quello  dei  gatti  che aiutano nella visione notturna.

Le femmine hanno uno sviluppato istinto materno: recano  sul loro  dorso  le uova e, in seguito,  trasportano i nuovi  nati sempre sul dorso nutrendoli per le prime settimane.

Una specie amorevole

 

Proteggiamo il lupo italiano

 

Per primo  fu  lo  zoologo italiano Giuseppe Altobello che, negli  anni ’20 del  secolo  scorso  studiando  la popolazione del lupo appennino, intuì che la sottospecie Canis lupus italicus  fosse unica al mondo.

Oggi, dopo  quasi un secolo, quell’intuizione è diventata certezza grazie allo  studio di un team di  scienziati  appartenenti  a nove nazioni  europee.

La ricerca, pubblicata su Plos One e visibile nel  box a fine articolo, è arrivata a questa conclusione studiando la variabilità genetica di  cinque diverse popolazioni  europee di lupi scoprendo, quindi, che quella italiana presentava un corredo  genetico distinto  dagli altri  gruppi.

La notizia, importante dal punto  di  vista scientifico, dovrebbe stimolare ad una maggiore attenzione per la protezione e conservazione del lupo italiano, anziché cadere nella faciloneria di  chi ne vorrebbe limitare la popolazione attraverso abbattimenti  selettivi per una presunta pericolosità nei  confronti  dell’uomo.

Purtroppo, l’azione negativa del  bracconaggio sta mietendo  il numero  di  esemplari, con il rischio  di  vanificarne la faticosa ripresa che è iniziata intorno  agli  anni ’70.

Insieme  ad altre associazione ambientaliste, in prima linea per la difesa del lupo troviamo  il WWF Italia che, attraverso  la campagna SOS Lupo chiede un piccolo  contributo per la protezione del lupo in Italia.

La campagna SOS Lupo  termina il prossimo  22 maggio, ma si  può contribuire oltre questa data con le modalità visibili  sul sito  del WWF.

Concludiamo   segnalando un libro molto  bello sulla storia dei  branchi  che per prima hanno ricolonizzato  le Alpi: I lupi  delle Alpi  Marittime della zoologa Francesca Marucco  (Blu edizioni euro 10,00)

 

Dall’introduzione de I lupi delle Alpi  Marittime:

Dopo circa settant’anni di  assenza, nell’ultimo  ventennio  il lupo è  tornato  sulle Alpi, colonizzando il settore delle Marittime al  confine tra Piemonte e Francia. Le analisi  genetiche hanno  dimostrato  che il ritorno  è dovuto alla naturale dispersione dei lupi  appenninici, e che il fenomeno è in espansione: dai  branchi  delle Alpi  Occidentali alcuni  animali  si stanno  spostando verso  le Alpi  Centrali  ed Orientali, dove ultimamente sono  apparsi anche i primi lupi  provenienti  da est.  

 


 

 

 


 

 

 

 

Mettiamoci il becco

Esempio di figura tridimensionale di un becco di uccello. Dal sito Mark My Bird

 

Non si  tratta di  fare del  gossip , anche se il titolo  dell’articolo potrebbe ingannare, ma semplicemente il becco  è quello  degli uccelli tema di una ricerca dell’Università di  Sheffield (GB)  aperta al  contributo  di  tutti.

Partendo  dalla questione che in natura esistono più di 10 mila specie di uccelli, il team universitario  di  ricercatori, guidato  da Gavin Thomas, ha deciso  di studiare la diversificazione degli uccelli  partendo  dal  becco, organo che può dare diverse informazioni su molti  aspetti  della vita di  questi  animali, dalla loro  evoluzione fino  al loro  tipo  di nutrimento.

il problema è che una ricerca di  questo  tipo, fatta su  scala mondiale, non avrebbe le necessarie risorse finanziarie per portarla avanti.

Quindi  si  è pensato  di  scannerizzare in 3D i  becchi  di  migliaia di  esemplari di uccelli conservati  nelle raccolte di  musei  naturalistici  inglesi e  chiedere l’aiuto  di volontari  appassionati di ornitologia che, seguendo  le istruzioni  sul  sito Mark My Bird avranno il compito  di marcare il becco  nei punti  richiesti e scaricare i risultati  nella banca dati  del  sito.

Questo approccio  alla ricerca scientifica aperta a tutti, quindi anche  ai non specialisti,  è quella comunemente chiamata scienza partecipativa (citizen science): il programma dell’Università di  Sheffield, supportato  dall’European Research Council (ERC), ha avuto fino ad adesso la registrazione di più di 1.700 utenti  attivi con migliaia di marcature all’attivo.

 

 

Scoperta un’altra barriera corallina in Australia

 

Coral reef locations.jpg
Distribuzione delle barriere coralline nel mondo

 

Dietro  alla Grande barriera corallina se ne nasconde un’altra: è quanto scoperto da una ricerca della Royal Australian Navy, utilizzando la tecnologia laser,  che ha portato  alla luce una struttura  a forma ciambellare composta da formazioni  geologiche create da alghe verdi (Halimeda).

Si  è già parlato ii passato della presenza di  queste strutture, ma solo oggi si è avuto la possibilità di  avere un riscontro  riguardante la loro  forma e dimensione: ogni  tumulo  a forma di  ciambella misura dai 200 ai 300 metri  di  diametro, con il  centro avente   dieci  metri  di profondità.

La scoperta di  questa nuova barriera corallina potrà offrire agli  scienziati  la possibilità di nuovi  studi sull’impatto dei  cambiamenti  climatici  e il fenomeno  dello  sbiancamento  dei coralli  dovuto ad un aumento  della temperatura dell’acqua marina.

 

Il “Santuario dei Cavalli Selvaggi dell’Aveto”

cavalli selvaggi

 

Guardando  la carta geografica riguardante la Liguria salterà subito in evidenza come questa regione sia prevalentemente montuosa rispetto all’esile fascia costiera.

Certamente sono le spiagge, quelle affollate dei  mesi  estivi, a carpire la maggior percentuale dei  flussi  turistici.

Eppure, l’entroterra ligure, è ricco di ambienti  naturali  tali  da soddisfare ogni  esigenza per gli amanti di tutte le forme di  svago, ma non solo, legate all’outdoor.

Come dicevamo  le occasioni sono  molteplici, anche per quanto  riguarda la semplice osservazione della fauna e della flora presente nei  sistemi  naturalistici liguri.

Fino  ad arrivare, certo  con un po’  di  fantasia, a simulare ambienti che hanno il sapore dell’esotico attraverso  situazioni per così dire insolite.

È il caso di un branco  di  cavalli  selvatici (all’incirca si  tratta di una cinquantina di esemplari) presenti  nella bellissima Val  d’Aveto.

Gli  animali vennero liberati alcuni  anni  fa da un allevatore che non poteva più sostenere economicamente l’attività. Da allora i  cavalli vivono  allo  stato  brado  riuscendo a riprodursi perpetuando il branco.

Oggi, da più parti, si  chiede l’istituzione di un organismo  che li protegga ulteriormente creando  quella che dovrebbe diventare il “Santuario dei  Cavalli  Selvaggi dell’Aveto”.

#SOSLUPO

lupoJpeg

Dopo  anni passati  a combattere per far si  che il lupo (Canis lupus) tornasse a vivere nei  nostri  boschi, ecco che un’iniziativa del ministero  dell’Ambiente potrebbe mettere in serio pericolo tutti  gli  sforzi che fino ad oggi sono stati  fatti per la reintroduzione del predatore.

Il nuovo Piano di  conservazione e gestione del lupo in Italia, preparato  dal ministero in collaborazione con l’Unione zoologica italiana, prevederebbe l’abbattimento  di  sessanta esemplari ogni  anno.

Un numero certamente molto alto rispetto  alla reale consistenza dei  branchi ambienti  naturali.

Bisogna inoltre ricordare che il lupo in quanto  specie protetta rientra nella direttiva comunitaria Habitat del 1992, recepita dal nostro ordinamento con il Dpr n. 357 del 1997 (per la lettura del  documento  si  rimanda al box dell’articolo  precedente a questo). Tale direttiva consente solo l’abbattimento  di singoli esemplari ritenuti  pericolosi per l’uomo e non certamente una “mattanza”.

C’è da dire che il Piano di  conservazione e gestione del  lupo non riporta solo  la possibilità di  abbattimento, ma anche una decisa presa di posizione contro il bracconaggio con l’inasprimento  delle pene e, contemporaneamente, opere di informazione e divulgazione per avvicinare la conoscenza da parte della popolazione di  questo  canide.

Queste ultime considerazioni  hanno  trovato l’accordo  con il Wwf Italia che, mettendosi  letteralmente “dalla parte del lupo”, ha dato  vita ad una petizione online (#soslupo) per evitare gli  abbattimenti  legali del lupo  nel nostro  Paese.

 

 

 

 

 

 

 

 

Un colpevole per la moria delle api

autore della foto: Jon Sullivan

autore della foto: Jon Sullivan

 

È stato  risolto il caso della moria delle api e trovato il colpevole: l’essere umano.

Naturalmente la colpevolezza non è ascrivibile ad un’azione diretta dell’uomo  contro  le api: si  tratta, bensì, della diffusione di un virus che, deformando  la forma delle loro  ali, le porta ad una morte certa.

Questo  problema, secondo  quanto  riportato  dalla rivista Science, risale alla seconda metà del  ventesimo secolo: allora le api asiatiche importate dall’ex Unione Sovietica in Europa, si ibridarono con le specie autoctone.

Il fatto è che le api asiatiche avevano trovato il mezzo per difendersi  da un acaro originario  del  sud- est asiatico, la Varroa, cosa che non avveniva per le api europee.

L’acaro aggravava la presenza di un virus che, fino  ad allora, era presente solo sul corpo degli insetti: il passaggio, dopo il morso  dell’ acaro, dall’esterno all’interno dell’organismo  attraverso il circolo sanguineo e, conseguentemente,  la diffusione del  virus.

In seguito, la diffusione delle api europee in America ed Asia, ha causato una pandemia globale con gravi  rischi sia per l’agricoltura che si  basa sull’impollinazione delle api, sia quella diretta agli  apicoltori.

Non solo: il virus si  sta diffondendo anche ad altri impollinatori come i  bombi  e le api  solitarie.

La soluzione, per il momento, sarebbe quella di un maggior controllo sul commercio delle api, magari limitandone solo  a quello  delle api regine

Il più piccolo degli insetti

Scydosella musawasensis

Scydosella musawasensis

Se parliamo  di dimensioni riguardo  agli  animali, molto probabilmente penseremo in grande riferendoci, ad esempio, ai 33 metri  della balenottera azzurra (Balaenoptera musculus).

Difficilmente ci verrà in mente l’opposto  della scala dimensionale, e cioè quale animale, in questo  caso insetto, occupa il podio  del “più piccolo”.

Ad oggi  di tale primato è insignito il coleottero Scydosella musawasensis con i suoi 0,325 millimetri  di lunghezza.

Questa specie è stata scoperta in Nicaragua nel 1999 ed il suo  habitat è rappresentato da zone caratterizzate da un grande quantitativo  di  fogliame e legno in decomposizione insieme ad altro  materiale organico: tutto  ciò rappresenta la “mensa” dove larve e adulti  di  coleottero  si  cibano.

Molti obietteranno  che il record andrebbe assegnato ad un altro insetto  come il Dicopomorpha echmepterygis (0,139 millimetri  di lunghezza): ma quest’insetto è un parassita di  uova di  altri insetti, a differenza del  coleottero  scoperto in Sud America il quale conduce una vita in piena libertà senza la necessità di  farsi ospitare da un’ altra specie.

   

La cura dell’elefante

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Al proverbiale detto che vuole l’elefante avere un’ottima memoria, si potrebbe aggiungere che, oltre a questa caratteristica, l’animale gode di una buona salute che lo preserva dai  rischi  del  cancro.

Si è giunti  a questa considerazione dopo  uno  studio effettuato  dalla Huntsman Cancer Institute (University of Utah) in collaborazione con  l’ospedale pediatrico e l’Hogle Zoo di Salt Lake City, e con il Ringling Bros. Center for Elephant Conservation.

La ricerca, pubblicata sul Journal of American Medical  Association, si  basa sul fatto  che meno  del 5% degli  elefanti muoiono  per il cancro (per gli  esseri umani questo tasso  varia dal 11 al 25%).  Inoltre, considerando le proporzioni  fra elefante ed essere umano dove il primo  ha all’incirca 100 volte più cellule del  secondo, le mutazioni  genetiche delle cellule, causa di  cancro,   nell’elefante  sono  minori.

Questo perché nel corredo  genetico dell’elefante vi  sono 40 copie di  un gene che codificano il  soppressore dei  tumori P53: negli  esseri umani le copie di questi  geni  sono  solo  due.

La notizia ha immediatamente sollecitato l’idea di una possibile cura contro  le forme tumorali umane: un team di scienziati della Technion – Israel Institute of Technology di  Haifa, si  è posto l’obiettivo di  creare un nuovo  approccio  terapeutico  per il cancro  basandosi sulla ricerca dei  colleghi statunitensi.

Lo studio è ai suoi  primi  passi e ci  vorrà tempo  affinché trovi un’applicazione clinica: nel  frattempo possiamo  ringraziare gli elefanti per averci indicato una strada verso future e possibili  guarigioni.

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