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Ciò che fa scivolare le placche tettoniche

La mappa mostra le 15 placche tettoniche del pianeta

La mappa mostra le 15 placche tettoniche del pianeta

Gli  studi  geologici  hanno  sempre detto  che la crosta terrestre è costituita da almeno  15 placche tettoniche che, spostandosi, hanno  creato  catene montuose, vulcani e, purtroppo, anche zone sismiche.

Ma l’esatto meccanismo con cui le placche si muovono  era rimasto un mistero  fino  ad oggi, e cioè quando un nuovo  studio ha evidenziato  come le placche scivolino  su  di uno  strato di  roccia “morbida”, spesso sei miglia, posto  tra la base delle placche e la porzione superiore del mantello  terrestre (lo strato di  roccia fusa intorno  al nucleo del pianeta).

Gli  scienziati per la loro  ricerca hanno utilizzato la dinamite per generare onde sismiche nella zona meridionale del North Island (Nuova Zelanda), la quale si trova al  di sopra di  quella che viene denominata “Pacific Plate”.

Le onde sismiche che viaggiavano  attraversando  la Pacific Plate, sono  state mappate ed i  dati ottenuti  sono  stati utilizzati per creare un’ immagine la più dettagliata possibile di una placca tettonica oceanica.

I dati  hanno  evidenziato  come la velocità delle onde sismiche era notevolmente rallentata incontrando  la base della placca: da qui la certezza che esse abbiano  attraversato lo  strato “gelatinoso”  di rocce semi-fuse tra placca e mantello che funzionerebbe come lubrificante.

 

 

Più è vecchio e più c’è vita?

Rappresentazione artistica del  sistema solare Kepler-444

Rappresentazione artistica del sistema solare Kepler-444

 

È un giorno inimmaginabilmente molto lontano ma, allo stesso  tempo, porterà ad una tragedia ineludibile: lo “spegnimento” del nostro  Sole.

Per allora, come ogni buon film di  science fiction insegna, l’umanità avrà trovato  dimora su  altri pianeti  del  tutto  simili alla nostra Terra.

Fino  allora, godendo ancora dell’abbronzatura che il nostro astro ci regala ad ogni  estate, è buona cosa cercare nell’Universo queste “nuove case”.

La sonda Keplero dal 2009, anno  di  lancio da parte della NASA, ha egregiamente svolto il suo lavoro  di  ricerca di  esopianeti  nel  cosmo: sono 4.200 quelli  candidati ad ospitarci nel  futuro (sempre che non siano  già abitati  da altri inquilini di cui non si può conoscere il grado  di  tolleranza verso lo “straniero”).

L’ultima scoperta del Kepler Space Telescope è quello  di un sistema solare distante 117 anni  luce dalla Terra. Questo  sistema solare è composto  da cinque pianeti  rocciosi che ruotano  intorno  ad una stella chiamata Kepler-444 dell’età di 11,2 miliardi  di  anni e, quindi, vecchia più del  doppio  del Sole.

Va subito detto, però, che i  cinque pianeti orbitano intorno a Kepler-444 in un orbita che non permette loro  di  rientrare nella cosiddetta “Goldilococks zone”: cioè quella regione di  spazio attorno  ad una stella che, pur essendo calda, permette l’esistenza di oceani  e, possibilmente, di  vita.

Allora perché questo  sistema solare è importante per la ricerca di  vita aliena?

Questo  ragionamento si  basa sul  fatto che, parlando  dell’evoluzione della vita sulla terra, sono  occorsi  quattro miliardi di  anni, pianeti  ancora più antichi,  del tuto  simili  alla Terra, possono ospitare civiltà tecnologicamente evolute.

Per alcuni  scienziati, però, l’età di un pianeta non è paradigmatico alla presenza civiltà evolute: la nascita della vita da tantissimi  fattori di  cui l’antichità, o  meno, rappresenta solo una piccola parte delle possibilità.

“Non chiamarmi terremoto”: anche questa è prevenzione

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L’Italia è da sempre una “terra ballerina”: escludendo la Sardegna, dove il rischio sismico è al minimo, il resto del nostro Paese è soggetto ad eventi  tellurici di  varia grandezza.

Il primo pensiero  è  quello che affronta l’evento come una fatalità naturale da cui  non ci  si può difendere. Se ciò è in parte vero, altro  discorso è quello  della prevenzione (edilizia anti-sismica) e quello riguardante il comportamento da adottare durante l’evento  sismico.

Da qui  la necessità della diffusione presso la popolazione civile dell’informazione scientifica riguardo  la conoscenza del  territorio.

Per questo scopo è nato  all’incirca vent’anni  fa il progetto EDURISK che vide il coinvolgimento dell’allora Gruppo Nazionale per la Difesa dei  Terremoti (dal 2001 confluito nell’Istituto nazionale di  Geofisica e Vulcanologia) con il finanziamento del  Dipartimento nazionale della Protezione Civile.

Il progetto  coinvolge due istituti  di  ricerca: quello  già citato dell’istituto  nazionale di Geofisica e Vulcanologia,  e quello dell’Osservatorio Geofisico Sperimentale di Trieste.

Tra gli esperti di entrambi  gli  istituti,  uno  staff proveniente dall’editoria scolastica e multimediale si  dedica alla “progettazione educativa”.

Da questa collaborazione è nata la realizzazione del docufiction “Non chiamarmi  terremoto”: l’obiettivo è quello  di  raggiungere i giovani, le loro  famiglie e le comunità locali  attraverso un messaggio il più corretto possibile per ridurre i danni  da terremoto.

Tra i protagonisti che compaiono  nel  video (che  hanno contribuito  alla  realizzazione in maniera gratuita) vi  sono quelli che hanno  vissuto il dramma del  terremoto dell’Aquila del 6 aprile 2009.

 

Nuovi strumenti per scoprire la vita aliena

"Le sabbie di  Marte"

“Le sabbie di Marte”

 

Agli  strumenti  nati per indagare sulla possibilità  di  vita aliena in pianeti  extra solari, se n’ è aggiunto uno  nuovo,  da poco inaugurato in Cile.

Il Next – Generation Transit Survey  (NGTS) è stato progettato per cercare pianeti  che abbiano  da 2 a 8 volte il diametro  della Terra.

Il telescopio  rileverà il transito di un pianeta davanti  ad una stella: la luce che passerà nell’atmosfera del pianeta servirà per gli  scienziati a studiare la densità dell’atmosfera ed altri parametri del pianeta stesso, questo per ipotizzare se esiste la possibilità di  vita aliena.

Il progetto e la messa in opera del NGTS è dell’Università di Warwick (UK). Il sistema è composto da dodici  telescopi in sincronia tra loro e comandati  dal centro  dell’European Southern Observatory.

L’ESO è un ente transnazionale composto da 15 nazioni (  Italia compresa) che gestisce tre osservatori nel mondo tra cui  l’Osservatorio del Paranal sul Cerro Paranal (Atacama – Cile).

 

 

Conoscere di più la geologia

Carta geologica dell'Italia (tratta dal  volume  "Geologia per l'Italia")

Carta geologica dell’Italia (tratta dal volume “Geologia per l’Italia”)

 

È di oggi  la notizia di uno  sciame sismico  verificatosi  nell’Appennino  tosco – emiliano con una magnitudo 4.3 nel suo punto  di registrazione maggiore.

Per fortuna non vi  sono  state segnalazione di  danni alle cose o alle persone ed il tutto  rientrerà in un fatto  di  cronaca che, per il futuro, interesserà solo  gli  addetti  ai lavori per i loro  dati  statistici.

Sarebbe riduttivo, però,  parlare “di addetti  ai lavori”, appunto  i  geologi, solo come osservatori  passivi di  ciò che accade nel  sottosuolo del nostro Paese e, in generale, per tutto  quello  che riguarda la geologia.

Sono molteplici i contributi  che la geologia offre nel  campo  della conoscenza del  territorio, della sua integrità e conservazione nonché  la prevenzione per quanto  riguarda   le catastrofi naturali.

A questi  aspetti  si  aggiungono anche quelli dello  sfruttamento sostenibile delle risorse idriche ed energetiche: il tutto per dire quanto  sia importante questa scienza e quanto, purtroppo, oggi viene generalmente  trascurata dalle istituzioni .

Per questo motivo  la Società geologica italiana  ha ideato  la pubblicazione “Geologia per l’Italia” (scaricabile sia dal  box  sottostante  che dal sito della Sgi) nelle cui  sessanta pagine sono illustrati i  contributi di  questa scienza per la conoscenza ed  il bene comune.

Un discusso impatto in Antartide

Pingualuit Crater Lake (Canada - Quebec)

Pingualuit Crater Lake (Canada – Quebec)

 

Il 20 dicembre del  2014, durante una ricognizione  aerea scientifica tedesca sull’Antartide orientale, è stato rilevato un cratere del diametro di circa due chilometri dovuto presumibilmente all’impatto con una meteora.

Il cratere da impatto  è di dimensioni  doppio  a quello  doppio del Barringer Meteor Crater in Arizona. Le analisi  tecniche dicono  che il cratere scoperto in Antartide potrebbe risalire a 25 anni  fa.

I ricercatori  tedeschi erano in Antartide per raccogliere nuovi  dati sulla formazione del  supercontinente Gondwana:  partendo  in aereo  dalla base belga Principessa Elisabetta,  hanno  dovuto  deviare dalla rotta prestabilita per un guasto al  sistema radar di  bordo arrivando, così, alla scoperta fortuita del cratere.

A questa scoperta si  aggiunge lo scetticismo  di  altri  scienziati per i quali il diametro del  cratere non è compatibile con le dimensioni  dell’oggetto  che lo  avrebbe creato: come regola generale si  stabilisce che la meteora deve essere 10 – 20 volte più piccola del diametro  del cratere e, quindi, in questo  caso la meteora avrebbe avuto  almeno  100 metri  di  diametro: incompatibile con gli impatti più recenti (e documentati) sulla Terra.

 

Un dubbio scientifico sul Bosone di Higgs

Sezione del Large Hadron Collider (LHC)

Sezione del Large Hadron Collider (LHC)

Il dubbio che la particella scoperta l’anno  scorso dai fisici del CERN sia effettivamente il bosone di  Higgs, può lasciare indifferente la maggior parte delle persone le quali, prese nella spirale della crisi  economica, pensano piuttosto alla soluzione di problemi più contingenti come la difesa del lavoro.

 Questo, però, non esclude che la dichiarazione di un team di  scienziati, capitanati  dallo  scienziato Mads Tourdal Frandsen (professore associato  presso il Centro di  Cosmologia e Fisica delle Particelle della University of Southern Denmark), non abbia creato un certo  scompiglio nel mondo  scientifico.

Ad essere sotto  accusa sono i dati ricavati  attraverso gli  esperimenti  condotti  con il LHC del  CERN: essi  sono ritenuti non abbastanza precisi  per dire che quella scoperta sia proprio  il bosone di  Higgs quanto piuttosto una “techni-higgs particle”.

Per noi  profani, a questo punto,  le cose si  complicano: a fare la differenza tra bosone di  Higgs e “techni-higgs particle” sta nell’appartenenza a due differenti  teorie dell’universo in cui in una il bosone di  Higgs è una particella elementare, mentre nell’altra la “techni-higgs particle” è composta da sub-particelle elementari  chiamate “techni-quarks”.

Naturalmente, che sia giusta un’ipotesi piuttosto  che l’altra, è sempre la ricerca che andrà avanti per svelarci i misteri  del mondo  che ci  circonda.

 

 

 

Quando le piume servivano per comunicare

Scheletro di  Archaeopteryx Museo di  Storia Naturale di  Berlino

Scheletro di Archaeopteryx
Museo di Storia Naturale di Berlino

 

Ricercatori  dell’Università di  Bonn hanno condotto  uno  studio riguardante la presenza di piume nei  dinosauri milioni  di  anni prima che alcuni  di  essi  evolvessero  nelle forme adatte al volo.

La ricercatrice Marie – Claire Koschowitz afferma che la presenza di piume colorate avrebbe avuto negli  antichi  rettili  lo  stesso  significato  che oggi  è  alla base nella selezione sessuale degli uccelli.

La teoria per cui  le piume erano  solo un adattamento per il volo andrebbe quindi  rivista come strumento per la facilitazione della comunicazione e scelta del  partner.

Il team  guidato  dalla ricercatrice tedesca è arrivato  a questa conclusione dopo  aver analizzato  sequenze genetiche rassomiglianti tra dinosauri, rettili moderni  ed uccelli. L’analisi  ha portato  ad ipotizzare che i  dinosauri  possedessero la capacità di una visione “tetracromatica” grazie alla presenza di  fotorecettori per rilevare luce ultravioletta e nello  spettro  blu, verde e rosso ampliando così la relazione intraspecifica.

 

 

Tutankhamon: più sfortuna che paura

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Ammettiamo che nell’utilizzo di questa vignetta siamo  stati molto  irriverenti  nei  confronti  del  faraone Tutankhamon (14esimo secolo a.C.) : ma è solo  un modo  per sdrammatizzare quell’aurea di mistero e di terrore (mediata anche da tanta letteratura pseudoscientifica) intorno  a questa figura del passato.

D’altronde, la realtà della vita del  “faraone bambino” (morì all’età di diciannove anni), era tutt’altro  che quella di un individuo dotato di  fascino e fortuna.

Ad  asserirlo  è un recente documentario  della BBC che,  attraverso una ”autopsia virtuale” ossia per mezzo  di  diverse scansioni del  sarcofago e test genetici, rivela un corpo che doveva subire l’handicap di un piede deformato  rivolto  all’interno (con conseguente zoppia) e con fattezze femminili riscontrabili  nei  fianchi, nonché denti  sporgenti.

A questa non esaltante immagine, si somma l’indagine genetica (a cura di  Albert Zink, direttore dell’Istituto per le mummie e l’Iceman di  Bolzano) che adombra il mito  di  Tutankhamon: sarebbe stato il figlio  incestuoso  nato  dal  rapporto del padre Akhenaton (il “faraone eretico”) con una delle sue  sorelle.

L’incesto avrebbe avuto  come conseguenza le deformazioni e malattie ereditarie che avrebbero ucciso il faraone in età giovanile.

La scienza,  aspettando  altri e successivi  studi sul sarcofago, è cauta nel  dare un giudizio  finale alle analisi.

Noi, da parte nostra, preferiamo  ricordare il faraone Tutankhamon come figura enigmatica espressa dal  bel  volto in oro  del  suo  sarcofago (e che ci perdoni se abbiamo  scherzato  con  lui: la maledizione  di  Tutankhamon mette sempre un po’ di  paura).

Un progetto per il “paesaggio invisibile” di Stonehenge

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È universalmente conosciuto  come uno  dei  siti  archeologici più fascinoso  per l’aurea di mistero  che da sempre la circonda: Stonehenge.

Ma cosa si  nasconde nel suo  sottosuolo? Quanti altri indizi sono ancora nascosti per definire la storia  del popolo che ha innalzato  questo monumento?

Per dare una risposta a queste domande è nato  lo “Stonehenge Hidden Landscape Project” , voluto  dall’Università di  Birminghan  in collaborazione con il Ludwig Botzmann Institute for Archeological Prospection and Virtual  Archeology.

Lo  scopo  del progetto è quello  di  creare una mappa tridimensionale di  questo  “paesaggio invisibile” e di  correlarla  con  i  dati ricavati  da analisi geofisiche per poter infine dare un quadro più preciso  dell’ambiente riferito  all’epoca della costruzione di  Stonehenge.

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