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Tarantole & C.

black  tarantula

Aphonopelma johnnycashi

 

Non possiamo sapere se a  Johnny Cash avrebbe fatto piacere che il suo nome fosse associato  alla scoperta di una nuova specie di  ragno.

D’altronde, la Aphonopelma johnnycashi (nella foto) presenta una livrea cupamente nera che ha fatto  pensare subito a “The man in black”:il soprannome attribuito  a Johnny Cash per la sua predilezione per gli  abiti di  quella tonalità (quasi  funerea).

Ritornando  al nostro  aracnide, è una nuova specie di  tarantola che si inserisce tra le 55 specie finora scoperte. Stranamente di  questi  ragni (molto popolari  come componente horror di molti  film) non si  conosce a fondo il loro comportamento in natura e la loro distribuzione.

Se soffrite di  aracnofobia, visitare la mostra “Spider – i più grandi  ragni del mondo” non è il vostro  caso (anche se qualcuno dice che potrebbe essere una terapia d’urto).

Per tutti  gli  altri l’appuntamento è presso il Museo  di  Storia Naturale di  Genova: nelle bacheche si potranno ammirare cinquanta specie vive di tarantole (tra cui  quella Golia e cioè il più grande ragno esistente), dieci  specie di  scorpioni  e tre di  scolopendre.

La mostra chiuderà i battenti  il 4 giugno prossimo (INFO).

A noi avrebbe fatto piacere    visitare la mostra, ma un “allarme meteo”  di troppo  ci  ha regalato un Museo  chiuso per chissà quale rischio di inondazione.

Comunque, Genova è pur sempre una bella città  da visitare (anche sotto due gocce di pioggia).

 

 

Materia oscura ed estinzione dei dinosauri

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Lisa Randall

Lisa Randall (nella foto) è una ricercatrice e professoressa di  scienze presso l’università di  Harvard,   i suoi  studi recenti  sono stati indirizzati  verso  la materia oscura cioè quella forma di  materia che, se pur interagendo debolmente con la materia ordinaria attraverso  la gravità, non emette o assorbe luce.

Dark Matter and the Dinosaurs” è il titolo  del suo libro in cui avanza l’ipotesi  che la materia oscura sia stata una concausa per la  scomparsa dei  dinosauri  65 milioni  di anni fa.

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L’estinzione dei  dinosauri, ed insieme ad essi anche tre quarti delle specie viventi  allora, è stata causata da una cometa probabilmente proveniente dalla cintura di Oort, cioè quella regione dello  spazio oltre l’orbita di  Nettuno densamente popolata da comete.

Lisa Randall, nel suo libro,  ipotizza che l’orbita della cometa sia stata turbata da un’enorme massa formata da materia oscura che,  a differenza dell’altro  tipo  di materia oscura presente nello spazio e  ricordandoci di  essere sempre nel  campo  delle ipotesi scientifiche, si  sia condensata in un disco la cui  influenza gravitazionale era potente tale da “rapire” la cometa dalla sua orbita originaria.

 

Onde alte 300 metri di un antico tsunami

L'isola di Fogo con la caldera formata dal crollo del vulcano

L’isola di Fogo con la caldera formata dal crollo del vulcano

Il maremoto verificatosi nell’Oceano Indiano il 26 dicembre 2004,  che causò la perdita di  centinaia di migliaia di  vite umane, generò onde alte quattordici  metri, quanto, se non più, una palazzina di  tre piani.

Possiamo solo immaginare come possa essere devastante un’onda di uno tsunami alta duecentocinquanta metri.

Non è il soggetto di un film catastrofico, ma ciò che è realmente accaduto, secondo  alcuni  scienziati, 73 mila anni  fa quando il versante orientale del  vulcano  dell’isola di  Fogo (Capo Verde) collassò in mare.

La colossale onda che si  formò,  si  spinse fino  all’isola di  Santiago  distante trenta miglia: qui, una volta infranta contro il bordo  roccioso  dell’isola, scaraventò al suo interno enormi massi  come quello visibile nella foto in basso.

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Gli  scienziati, analizzando  queste rocce, hanno  stabilito  che hanno  tutte la stessa medesima età geologica e che, quindi, siano  state spinte all’interno  dell’isola ( fino  a  più di  mezzo  chilometro) da un unico  evento  che avrebbe avuto  la potenza necessaria per spostarle come, appunto, lo  tsunami causato  dal crollo dell’isola di  Fogo.

Eventi  di  questo  genere sono fortunatamente rarissimi, ma non impossibili: lo stesso  vulcano  del’isola di  Fogo  è tutt’ora attivo (l’ultima  eruzione risale al 1995).

In Italia, sotto  la superficie del Tirreno meridionale, a 140 chilometri  dal nord della Sicilia ed a 150 chilometri  ad ovest della Calabria,   vi è il più esteso  vulcano  attivo  d’Europa: il Marsili.

È considerato potenzialmente pericoloso  per la possibilità di  generare catastrofici maremoti e conseguenti tsunami.

Forse sarebbe il caso di  rivedere il progetto del ponte sullo  Stretto.

Anzi, sarebbe il caso  di non costruirlo mai.

Niente paura: la “Luna Rossa” non porta sciagure

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Il prossimo  28 settembre avremo “Eclissi di  sangue” e cioè una eclissi lunare spettacolare che “tingerà” di  rosso il nostro  satellite.

Ciò è dovuto  al fatto  che la Luna, trovandosi  al perigeo e cioè alla distanza minima dalla Terra, risulterà essere più grande del 14 per cento rispetto alla visione normale.

In basso la tabella fornita dall’Unione Astrofili Italiani (Uai)

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Se è vero che lo spettacolo non è per tutti, solo  le regioni  nordoccidentali italiane potranno goderne appieno della eclissi, è anche vero  che eventi  simili scatenano la fantasia di  alcuni, paventando catastrofi mondiali  come l’impatto  di una meteora sulla Terra.

Ciò non accadrà il 28 settembre prossimo e, probabilmente non acadrà per decine e decine se non centinaia di  anni (purtroppo il “Cigno nero” è una possibilità sempre presente.

Ovviamente questo  tipo  di  catastrofe è avvenuta già in passato (una per tutti  quella che ha portato  all’estinzione dei dinosauri.

Di  solito  sono  questi eventi singoli, riguardanti una sola meteora  che impatta con la Terra, eppure, 458 milioni  di  anni  fa vi  sono state due meteore che, simultaneamente, si  sono  scontrate con il nostro pianeta.

Il doppio impatto è stato al centro  di una ricerca dell’Università di Götemborg (Svezia meridionale),  svolta nella contea di  Jämtland dove sono situati  due crateri che si  sono  formati   dopo  l’urto.

Le dimensioni  delle due meteore erano molto  diverse: la più grande ha lasciato un cratere che misura 7,5 chilometri  di  diametro. L’altro  cratere ha dimensioni decisamente molto  più piccole e cioè solo  di 700 metri.

Ciò porterebbe a pensare che la meteora era una sola e che solo in un solo momento, magari entrando  nell’atmosfera terrestre,  si  sia scissa. La distanza fra i  due crateri  è di  sedici  chilometri.

Naturalmente, 458 milioni  di  anni fa, Jämtland non aveva l’aspetto odierno: era un fondale marino posto  a cinquecento  metri  dalla superficie dell’acqua.

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Eruzioni vulcaniche ed estinzioni di massa

La conformazione della Terra nel Sakmariano all'inizio del Permiano

La conformazione della Terra nel Sakmariano all’inizio del Permiano

Alla fine del Permiano, 250 milioni  di  anni  fa (vedi schema alla fine dell’articolo), si  ebbe la più grande estinzione di  massa che il nostro pianeta abbia mai  conosciuto: il 90 per cento  delle specie marine ed il 75 per cento di  quelle terrestri  si  estinsero nel  corso  di  circa 60.000 anni.

L’innesco  di  questa tragedia fu  una sensazionale attività vulcanica continentale accertata dalle recenti  ricerche dell’US Geological Survey (Menlo Park, California) in Siberia.

Dalle analisi effettuate sui  cristalli presenti in antiche rocce vulcaniche di ventuno siti siberiani, gli  scienziati  sono  arrivati  alla conclusione che in quella regione che oggi è la Siberia si ebbe, a seguito  delle eruzioni  vulcaniche, un movimento magmatico pari  a 7 milioni  di  chilometri  quadrati con la produzione di  enormi  quantità di  gas che riscaldarono  globalmente l’atmosfera con conseguenti piogge acide.

Le eruzioni, sempre secondo lo studio americano, ebbero inizio trecentomila anni prima dell’estinzione di  massa, proseguendo  per altri cinquecentomila anni  dopo di  essa.

La chiave di  questi  risultati è dovuta al  decennio  di progressi  fatti  nell’analisi della datazione di  antiche rocce attraverso  la misurazione di  uranio e piombo e nuove strumentazioni  tecnologiche.

 

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Per avere più fresco bisogna aspettare il prossimo “Minimo di Maunder”

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Non sarà una consolazione per i prossimi giorni in cui  il termometro salirà fino a sfiorare i 40°, ma a detta degli scienziati nei prossimi  quindici  anni il clima virerà verso una mini-glaciazione.

Siccome poi non siamo mai  contenti immaginando, quindi, un futuro in compagnia di orsi  polari  e pinguini, va detto  subito che ciò è solo un’ipotesi  basata su  di un nuovo  modello  matematico della professoressa Valentina Zharkova (Northumbria University –UK), che predice  con maggior precisione i  cicli  solari e l’attività magnetica del nostro  astro.

La scienziata, in base al  suo modello proposto all’Astronomy National Meeting in Galles tenutosi in questo  mese, ha  predetto  che l’attività magnetica solare scenderà al 60 per cento tra il 2030 ed il 2040: questo  comporta l’idea che, abbassandosi l’attività solare, di  conseguenza si avrà l’inizio di  un ciclo “glaciale”.

Nel passato, tra il 1645 ed il 1715, si  ebbe un decremento  dell’attività solare cioè venne osservato che il numero  delle macchie solari fu molto  basso.

Il “Minimo di  Maunder” – nome dato a quel particolare periodo  e che prende il nome dall’astronomo olandese  Edward Walter Maunder il quale per primo  scoprì la mancanza di  macchie solari – concise con quello  che venne definito la piccola era glaciale che coinvolse l’Europa ed il Nord America.

Forse sarà il caso  di prendere lezioni  di  sci per affrontare gli  anni  del prossimo “Minimo di Maunder”.

Calore e vita

"Le sabbie di  Marte"

 

Secondo  alcuni  ricercatori  della Louisiana State University le condizioni  ambientali  che hanno  favorito le forme termofile sulla Terra sono state causate dall’impatto  di otto  mega asteroidi ben 3, 3 miliardi  di  anni  fa.

Donald Lowe e Gary Byerly, i due geologi  che hanno  avanzato  tale ipotesi, sono  arrivati  a questa conclusione esaminando  le rocce del  sito  di Barberton Greenstone (Sud Africa): l’esame di  queste rocce evidenzierebbe il fatto che, nell’arco  di 250 milioni  di  anni, il nostro  pianeta avrebbe subito l’impatto  di  ben  otto  asteroidi dalle dimensioni  che potevano  arrivare anche alle 60 miglia di  larghezza (quello che ha causato l’estinzione dei  dinosauri  era largo solamente 6 miglia).

Questi impatti  hanno  causato  l’innalzamento  della temperatura degli  oceani primordiali e, conseguentemente, ciò ha agito  come “selezione naturale” in favore di  quegli  organismi più adattati alle temperature estreme.

Per i prossimi  giorni si prevedono  temperature molto  calde, ma nessun pericolo  di  estinzione per il  genere umano: è solo un’altra calda estate.

Ai batteri piace la vita arida

il deserto  di  Atacama

il deserto di Atacama

Le previsioni  meteo  per i prossimi  giorni riportano  temperature in rialzo ovunque che, associate all’alto tasso  di umidità, daranno  la sensazione (sgradevole) di un caldo prossimo  ai limiti  della sopportazione.

Naturalmente e ciò che capita ogni  anno essendo  sopraggiunta da poco l’estate.

Volendoci  consolare,  comunque, possiamo  pensare a quei  luoghi  dove il caldo, questa volta veramente “infernale”, è presente tutto l’anno: ovviamente parliamo  dei  deserti.

Anche qui, però, bisogna fare una specie di  classifica in base alle temperature e all’aridità del  suolo: il campione in assoluto risulta essere il deserto  di Atacama nel nord del  Cile. In questo  deserto le condizioni  climatiche sono  così estreme da considerarsi  prive di ogni  forma di  vita.

Eccezione fatta per i  batteri: infatti, a seguito  delle ricerche di un team di  scienziati  cileni, sono  stati  ritrovato diverse forme   di  vita batterica, soprattutto di gruppi  appartenenti  agli Actinobacteria,  presupposto per ridefinire il limite di  “aridità” per cui  è ancora possibile trovare la vita.

Ciò comporta che anche in luoghi estremi al  di  fuori  del nostro pianeta, come ad esempio  Marte, potrebbe essere possibile la scoperta di una forma di  vita elementare come quella batterica.

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Non è sangue quello che scorre in Antartide

The Blood Falls seeps from the end of the Taylor Glacier into Lake Bonney. The tent at left provides a sense of scale for just how big the phenomenon is. Scientists believe a buried saltwater reservoir is partly responsible for the discoloration, which is a form of reduced iron.

Non è certo un “fiume di  sangue” riportata dall’immagine ma un fenomeno naturale visibile in Antartide, in particolare nel punto in cui  le cascate del ghiacciaio Taylor confluiscono nel  lago Bonney.

Il fenomeno  è dovuto al ferro  contenute nell’acqua salata di un fiume sotterraneo che, una volta giunto in superficie e mescolandosi  con  l’ossigeno atmosferico, si  colora di  “rosso  ruggine”.

Ad arricchire di  ferro  le acque è l’azione disgregante dei  batteri  sulla roccia.

Per gli scienziati tutto  questo  porta a considerare il fatto  che il sottosuolo  dell’Antartide conserva  un ampio ecosistema ancora  da scoprire e studiare.

Cosa nuotava negli oceani di 480 milioni di anni fa? L’Aegirocassis benmoulae

Ricostruzione di Aegirocassis benmoulae

Ricostruzione di Aegirocassis benmoulae

Se Aegirocassis benmoulae fosse vissuto fino  ai nostri  giorni non sarebbe il più grande animale marino: i  suoi  sette metri  di lunghezza sarebbero  surclassati  dai  trentatré metri  della balenottera azzurra, dai  venti  metri  dello squalo  balena e dai  quindici  metri del calamaro  gigante.

Al più, per i suoi  sette metri  di lunghezza,  potrebbe dividere il podio,  con il temibile squalo  bianco e,  sicuramente, condividerne anche l’aggressività.

I resti fossili del Aegirocassis benmoulae,  scoperti  nel  sud – est del  Marocco,  hanno un’età approssimativa di 480 milioni di  anni, quindi  risalenti all’ Ordoviciano,  il secondo  periodo dell’era Paleozoica (vedi  tabella in basso – cliccare per ingrandire). l’ Aegirocassis benmoulae apparterebbe al gruppo degli Anomalocaridae, una specie di primissimi  animali  marini risalenti  al  Cambriano.

Quello che contraddistingue Aegirocassis dai più antichi  resti  fossili di  Anomalocaridae del  Cambriano, è la sua morfologia composta da una lunga testa ed un corpo  segmentato con delle branchie sul dorso ed una serie di pinne lungo  il tronco  preludio agli  arti  delle forme più moderne di  artropodi  come i  gamberetti.

 

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