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NWA 7533: l’età del Pianeta Rosso

Le sabbie di Marte (in ricordo di Arthur .C. Clarke)
CaterinAndemme ©

InSight è in viaggio verso  Marte, arriverà al Pianeta Rosso fra sette mesi  e mezzo, con lo scopo  principale di  esplorare non tanto  quello  che è in superficie ma ciò che è ancora nascosto  nel  sottosuolo  marziano.

Per il momento  la conoscenza di Marte si limita ai  dati  delle precedenti missioni e da quelli, per così dire, piovuti  dal  cielo. 

Parliamo  delle meteoriti  come NWA 7533 (dove NWA indica Nord -West Africa) scoperto  nel 2012 e che gli esperti  hanno indicato  come una breccia polimittica (roccia sedimentaria classificazione  – Pdf – ) il cui  studio è importante per comprendere la genesi  di  Marte.

All’interno  di NWA 7533 sono  stati  rilevati cristalli  neosilicati  e, dall’analisi  del decadimento  radioattivo, si è arrivati  a stimare la loro  età intorno ai 4,4 miliardi  di  anni. 

Questo  indica che la differenziazione della crosta marziana è iniziata all’incirca nei  primi cento milioni  di  anni del pianeta e che, essendo l’età dei  cristalli neosilicati del  tutto  simili  a quelli  terrestri  e lunari, l’evoluzione della Terra e di  Marte, nonché della Luna,  sia stata pressoché contemporanea.

 

Ludwig van Beethoven: musica e cuore

Ludwig van Beethoven

 

Sul genio  musicale di Ludwig van  Beethoven non si  discute, ma che  sia stato anche frutto dell’aiuto di un’anomalia cardiaca è il risultato  di una  ricerca scientifica pubblicata nel 2015 sulla rivista Perspectives in Biology and Medicine.

Lo studio fu firmato da un team di cui  facevano  parte musicologi  e cardiologi sotto l’egida dell’Università del  Michigan: in esso  sono  stati correlati i pattern ritmici  di alcune composizioni del musicista tedesco (Bonn 16 dicembre 1770 – Vienna 26 marzo 1827) scoprendo che le opere riflettono  i ritmi  irregolari  di un’aritmia cardiaca.

Sempre secondo  gli  studiosi la sordità di Beethoven,  che tra l’altro  sembrava soffrisse anche di  colon irritabile, avrebbe reso  ancora più sensibile il compositore al ritmo  del suo  cuore e, quindi, a tradurre il tutto in musica.

È solo una ricerca da prendere con dovuto  rispetto, ma sempre nel campo  delle ipotesi: in ogni caso godiamoci  l’arte nella musica di  Beethoven .

 

 

L’autocombusione del faraone Tutankhamon

Maschera funeraria del faraone Tutankhamon – Museo del Cairo

 

Nel 1985 la casa editrice Mondadori pubblicò nella collana Urania, dedicata ai  romanzi  di  fantascienza, Autocombustione umana dello  scrittore irlandese  Bob Shaw (vedi  anche l’articolo  su  24Cinque Autocombustione umana: dalla fantascienza alla (fanta)scienza). 

 

La trama del libro, intuibile dal titolo, rimanda al fenomeno per cui un corpo umano prende fuoco senza nessuna causa apparente: ovviamente, per quanto una certa cronaca  parla di fenomeni realmente accaduti, in mancanza di prove scientifiche certe possiamo tranquillamente affermare di trovarci nel campo del paranormale o, per meglio  dire, della pseudoscienza.

Anche per il faraone Tutankhamon si è parlato in passato di  autocombustione, anche se ciò era accaduto per un fenomeno  legato  alla reazioni  chimiche tra gli  elementi utilizzati per il processo  di imbalsamazione.

Nel 2013, Chris Hauton, direttore dell’Egypt Exploration Society,  insieme all’archeologo  forense Matteo Ponting e l’antropologo  Robert Connolly, hanno esaminato un lembo  di pelle preso  dal  corpo del  faraone, traendone la conclusione che, dopo il seppellimento e all’interno  del  sarcofago, vi sia stato l’autocombustione innescata da un errata procedura eseguita dagli imbalsamatori.

Ricordiamo che la scoperta della tomba di  Tutankhamon, avvenne nel 1922 nella Valle dei  Re  ad opera di Howard Carter e che  la tragica morte di  alcuni degli  scopritori non fece altro  che alimentare la leggenda di una superstizione legata alla profanazione della tomba (eppure Howard Carter, il responsabile del  ritrovamento, morì di  vecchiaia nel 1939).

Non è accaduto  nulla di  tutto  questo  ai  tre scienziati che hanno ipotizzato una parziale autocombustione della mummia, se non una secca smentita da parte di  R.C. Williams del National  Geography con l’asserzione che l’ipotesi non era valida in quanto  nessuno  dei  gioielli o suppellettili sepolti  con Tutankhamon presentavano  segni  di  combustione.

Un terremoto per la Sacra Sindone

La Sacra Sindone

 

Ed ecco  che il velo  del  tempio  si  scisse in due parti  dall’alto in basso, la terra fu  scossa e le rocce si  spaccarono, i sepolcri  si  aprirono  e molti  corpi  di  santi che riposavano  resuscitarono, ed usciti  dai  sepolcri, dopo  la sua resurrezione entrarono nella città santa e si  manifestarono  a molti. Il centurione e coloro  che facevano  la guardia a Gesù, veduto il terremoto e quello  che avveniva, ebbero  gran  paura….    

Il brano  è tratto  dal Vangelo secondo  Matteo che, per  i  biblisti, è stato  scritto  da un anonimo  compilatore verso  la fine del  I secolo in lingua greca, utilizzando  come fonte la narrazione del Vangelo  secondo  Matteo e quella tratta dalla cosiddetta  Fonte Q.

Il tema di  questo  articolo non è però inerente alla storia dei  vangeli, quanto piuttosto il riferimento è quello  all’evento  sismico descritto  nel passo  del  Vangelo  di  Matteo.

Basandosi sui  dati  forniti dall’archivio  del National  Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA), si può vedere come effettivamente vi  sia stato un terremoto  nella Palestina del 33 d.C.

 

Questo  tragico  evento. o per meglio  dire i  suoi  effetti  fisici, ha un legame con un simbolo  della cristianità: la Sacra Sindone.

La questione che la Sindone sia un falso  medievale, oppure l’immagine reale in negativo  di   Cristo, ha sempre suscitato  numerose diatribe tra le opposte fazioni in sostegno  dell’una o  dell’altra ipotesi.

Una ricerca del  2014, condotta da un team del  Politecnico  di  Torino guidata dal professor Alberto  Carpinteri,  ha messo in relazione il sisma con  la Sindone ipotizzando  che l’impressione dell’immagine sul telo  era dovuta all’emissione di  neutroni dovute alle onde di  alta frequenza generate nella crosta terrestre durante i terremoti.

La stessa radiazione, sempre secondo la tesi  dei  ricercatori, avrebbe in qualche modo  alterato  la concentrazione degli isotopi  del  carbonio 14 presenti  nel  tessuto  di lino falsandone, quindi, la datazione.

Naturalmente anche questa ricerca del Politecnico  di  Torino è solo un’ipotesi  che non fornisce la certezza assoluta sulla originalità della Sindone.

La vita: dal mare alla terra, oppure contemporaneamente?

 

Panorama della regione Pilbara – Australia occidentale
Foto Kathy Campbell / University of New South Wales

 

La teoria ricorrente dice che la vita sulla Terra si  è sviluppata da prima negli oceani, presso sorgenti  idrotermali,  espandendosi, quindi, verso  la   terraferma.

Potrebbe essere accaduto il contrario?

Considerando che le più antiche testimonianze della vita sulla Terra risalgono a 2,8 miliardi  di  anni  fa ( quelle negli oceani  sono  più antichi  all’incirca di un miliardo  di  anni), sembrerebbe accertata questa unidirezionalità nello sviluppo della vita.

Sennonché una recente ricerca della University of  New South  Wales  in Australia, ipotizza una certa contemporaneità nella nascita di microrganismi nell’acqua e in terra.

Infatti fossili  composti  da stromatoliti risalenti  a3,5 miliardi di  anni fa, sono  stati  ritrovati nelle rocce di un antico  vulcano estinto  nella regione di Pilbara nell’Australia occidentale.

Come, nel  caso  dei microrganismi  sviluppati  nella profondità degli  oceani, anche quelli terresti hanno  avuto  come culla sorgenti  idrotermali  che, una volta evaporate, concentravano gli  elementi necessari alla loro evoluzione.

 



 

Nello spazio, 466 milioni di anni fa

 

Trentanove anni luce, cioè la distanza che ci  separa dai mondi del  sistema Trappist – 1,  sono  davvero una bella distanza da percorrere, quindi  dobbiamo  aspettare che uno Stargate possa colmarla senza che intere generazioni di  esseri umani  vadano  perdute nel  viaggio.

 

In viaggio verso  gli  esopianeti di  Trappist – 1 (dal sito italiano  della rivista Focus)

 

Ben altra cosa è il viaggio  temporale che, all’interno  del nostro  sistema solare,  ci porta indietro a 466 milioni di  anni fa.

Allora, in quella che la fantascienza di una volta definiva spazi  siderali, avvenne un cataclisma di enorme dimensione: la collisione di  due asteroidi, uno dalla dimensione pari  allo stato  del  Connecticut,  diede origine a migliaia di  frammenti, alcuni  dei  quali  caddero  sulla Terra quando  era presente un solo ed unico  supercontinente: la Gondwana.

Ancora oggi, anche se il flusso di  meteoriti di  quel gigantesco  scontro va ad esaurirsi, alcuni frammenti  cadono sulla superficie della Terra.

Tra le orbite di Marte e Giove è posizionata la cosiddetta Fascia principale: la regione del  nostro  sistema solare occupata da asteroidi  e pianeti minori  (Vesta è l’oggetto più luminoso  e secondo  per dimensione a Cerere): è un ambiente decisamente turbolento considerando  che, in tempi  misurati in scala di milioni  di anni, avvengono collisioni da cui  si originano nuove famiglie di  asteroidi.

Da queste collisioni si  formano  le meteoriti  che, sulla Terra, portò all’evento  che con ogni  probabilità causò l’estinzione dei  dinosauri, mentre sulla Luna l’impatto di uno  di  questi  giganteschi  frammenti formò il cratere Tycho.

Ritornando alla collisione di quasi  mezzo miliardo  di  anni  fa,  l’analisi chimica dei  frammenti ha portato alla conclusione che quel  tipo  di  rocce appartengo  alle rarissime acondriti rispetto  alle condriti che rappresentano  l’86 per cento  dei  frammenti  di  epoca più recente.

Lo studio  di  ciò che è avvenuto in quell’epoca lontanissima, porterà alla conoscenza di  alcuni  aspetti  sull’evoluzione del nostro  sistema solare in un periodo  in cui si pensava che esso fosse, per così dire, stabile.

 

KCI 8.462.852: un mistero ancora da svelare

 la "mappa stellare" di KCI 8.462.852

la “mappa stellare” di KCI 8.462.852

Millecinquecento  anni luce ci separano  dalla stella KCI 8.462.852 e, se questa distanza è enorme, ancor più è il mistero  che la circonda.

Cosa si frappone fra essa e l’osservatore, nel nostro  caso il telescopio Kepler impegnato  nella missione omonima, tanto da creare picchi  di oscuramento nella luce emessa dalla stella?

È inutile dire che, a questo punto, la fantasia galoppa portando ad ipotizzare civiltà aliene che sfruttano  l’energia della stella (la famosa Sfera di  Dyson), oppure la polvere dovuta ala distruzione di un pianeta per mezzo  di un’arma letale come la Morte Nera del  ciclo fantascientifico  di  Guerre Stellari.

O ancora uno  sciame di migliaia di asteroidi che ruotano intorno a KCI 8.462.852.

Certo che è affascinante pensare a civiltà aliene come, del resto, sapere che ancora tante cose sono da scoprire lì fuori e cioè in questo incommensurabile Universo di  cui  siamo solo meno  di un granello  di  sabbia (ma determinati alla conoscenza).


 

 


 

 

La vita aliena alla luce delle lune di Kepler-1647b

luna

 

Come si prenderà l’abbronzatura se nel  cielo  vi  sono due “Soli”?

A questa domanda potrebbe rispondere un eventuale abitante di Kepler-1647b, un esopianeta della dimensione di  Giove situato  a 3.700 anni  di  luce dalla Terra nella costellazione del  Cigno.

Questo  gigante orbita attorno  ad un paio  di  stelle binarie. Gli  scienziati hanno  calcolato  approssimativamente la sua età in 4,4 miliardi  di  anni, più o  meno “coetanea” del nostro pianeta.

La sua orbita intorno alle due stelle, molto  simili  al nostro  Sole, è a circa  2,7 unità astronomiche (quella della Terra è pari a 1 UA): tale distanza rientra in quella della “fascia della vita”:  cioè quella zona in cui calore e luce solare permette la formazione di  acqua liquida.

A smorzare ogni  facile entusiasmo che vorrebbe Kepler-1647b abitato  dai cugini  di  ET, ci pensano gli  astronomi informandoci  che il pianeta, come Giove, è un pianeta gassoso. Difficilmente potrebbe ospitare la vita come la intendiamo  noi terrestri.

Come Giove e Saturno,  però,  anche Kepler-1647b

potrebbe avere diverse lune rocciose dove la vita sarebbe (il condizionale è d’obbligo) possibile.

305 milioni di anni fa: il quasi ragno

Immagine di tomografia computerizzata del Idmonarachne brasieri

Immagine di tomografia computerizzata del Idmonarachne brasieri

Gli aracnidi hanno incominciato  a colonizzare la superficie terrestre almeno 420 milioni  di anni  fa.

Nonostante questo,  trovare un fossile di  aracnide è molto  difficile: ed è per questo che riveste un interesse scientifico particolare la scoperta in un giacimento  di  carbone presso Monteceau les –Mines (dipartimento  della Saona e Loira, nella regione della Borgogna, Francia) vecchio  di 305 milioni di  anni.

Gli  scienziati  hanno trovato per il fossile il nome di Idmonarachne brasieri  (Idmone, nella mitologia greca, era il padre di Aracne). Si può quasi  considerare un “prototipo” del ragno  moderno, in quanto  differisce per la mancanza di  filiera e un addome non segmentato  come in quelli  contemporanei alla nostra era.

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20.000 leghe sotto i mari: quanto rumore!

sirene

 

Qualcosa  di  rumoroso potrebbe disturbare il sonno delle sirene.

A confutare tale tesi  è stata un’equipe di  ricercatori del  NOAA (National Oceanic and Atmospheric Administration) e dell’Oregon State University, in collaborazione con la US Coast Guard.

Posizionandosi in verticale sul punto più profondo dell’oceano Pacifico, e cioè il Challenger Deep  (profondità compresa fra i 10.898 metri  ei 10.916 metri, all’estremità sud della fossa delle Marianne), hanno fatto   inabissare, fino  a toccare il fondo  dell’abisso, un idrofono protetto da una custodia in titanio per catturare i suoni di  quel  magico  mondo  subacqueo.

A parte il rumore prodotto  dal  traffico  marittimo, è molto  suggestivo quello del  “canto  delle balene”, come terrificante è il suono di un terremoto  di  magnitudo 5 (audio di  entrambe le registrazioni  a fine articolo).

Perché questa ricerca?

Con essa si  studia l’inquinamento  acustico  alle massime profondità e la sua influenza sulla vita della fauna marina

 

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