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Demenzaville? No, il suo nome è Hogeway

– Connessioni naturali – /©24Cinque

 

Demenzaville?

È evidente la strizzatina d’occhi, segno  di  facile ironia,   che il giornalista di  Panorama ha voluto condividere con  il lettore chiamando in questo modo  Hogeway, il sito a pochi  chilometri  da Amsterdam  dove, dal 2012,  si   sperimenta una nuovo metodo per dare sollievo alle persone affette da Alzheimer e alle loro  famiglie.

Articolo  di  Panorama su Hogeway

 

Hogeway è piccolo  villaggio, quasi  della dimensione di un quartiere di una metropoli, con quello  che si può trovare  normalmente in esso: una chiesa, un mini – market,  negozi ed abitazioni.

Il concetto  che è alla base del progetto di  Hogeway voluto dalla Vivium Care Group,   finanziato in parte   dal governo  olandese, è quello di liberare il paziente affetto  da Alzheimer  dagli  angusti  spazi di una casa di  cura, per far si  che egli  viva l’esperienza di  quella vita normale che ha perso con l’avanzare della malattia.

Ad Hogeway  tutto è  finto, nel  senso  che i malati non sono  abbandonati  a loro  stessi, ci mancherebbe, solo che il personale sanitario non indossa il camice d’ordinanza, quanto piuttosto la divisa di postino, quella di uno  spazzino, oppure finge di  essere un negoziante o  un addetto del cinema.

È  una  simulazione della realtà già vista nel  film  Truman  Show, dove il fine del reality è quello di  attirare il lato  voyeuristico dello  spettatore per uno  scopo  puramente   commerciali mentre, per quanto  riguarda Hogeway, si potrebbe quasi  affermare di  essere di  fronte ad un esperimento di  reinserimento sociale.

Ovviamente nulla viene fatto in maniera gratuita, perché Vivium è pur sempre società imprenditoriale che deve badare agli utili, ma, in questo  caso, il welfare olandese interviene con aiuti sostanziosi per le famiglie che ne necessitano in base al reddito.

In Italia sarebbe possibile un progetto  simile?

In parte si, perché la nostra imprenditorialità non è seconda a nessuno. In parte no, perché la scena politica che viviamo è quella sterile, basata sui meccanismi  autoreferenziali  dei partiti, lontana dai  veri  bisogni  della cosiddetta gente.

 

 

 

“Assistenza sanitaria universale” vs Big Pharma

folla

Contrapposto  a quello  che per molti  è il lato  oscuro di  “Big Pharma”, cioè la lobby delle grandi multinazionali  del farmaco che  detengono il monopolio dei brevetti sui  farmaci, esistono realtà contrapposte che al  guadagno  mettono in primo piano la salute della popolazione.

Naturalmente, a difesa dei propri interessi, le   grandi  multinazionali del  settore si  difendono ponendo  la questione sugli ingenti  investimenti che esse devono affrontare per la ricerca e, quindi, il prezzo  del  farmaco dovrà essere per forza alto per generare l’utile.

La vita dei  farmaci  generici è legata alla durata temporale del  brevetto che li  copre: al  temine di  questo periodo il farmaco può essere commercializzato  come generico  riportando il nome del principio  attivo.

A questo punto  è d’obbligo  fare un ulteriore distinzione: esistono  due tipologie di  brevetto, la prima viene definita come prodotto, cioè protegge la scoperta di un principio  attivo. Mentre il brevetto  di procedimento tutela il processo  di  sintesi  di una determinata molecola.

Nel 1970, attraverso l’Indian Patens Act, consentiva, ammettendo un brevetto  di procedimento  della durata di  sette anni, la produzione di  farmaci  generici il cui  principio  attivo era coperto  da brevetto  di prodotto di  altre aziende farmaceutiche (solo  venticinque anni  dopo, cioè nel 1995, l’India ha riconosciuto i brevetti  di prodotto, aderendo all’accordo  Trips).

Il ruolo che le case farmaceutiche indiane hanno nel commercio dei  generici, è fondamentale per i Paesi in via di  sviluppo: basta pensare che la spesa per la cura antiretrovirale per i  pazienti HIV è di un dollaro  al giorno. Per questo, organizzazioni umanitarie come Medici senza Frontiere, ad esempio, utilizza per la quasi  totalità dei  suoi  interventi, farmaci  essenziali per la cura dell’HIV, della tubercolosi  e della malaria (ed altre malattie non trasmettibili)  prodotti da case farmaceutiche indiane.

Cipla è una di  queste case farmaceutiche indiane: fondata nel 1935 per volere di  KA Hamied chimico  ed imprenditore, nonché attivista e stretto  collaboratore del  Mahatma Gandhi, si  batté fin dall’inizio  della sua carriera imprenditoriale affinché fossero abbattute le barriere etniche e di  reddito che non consentivano  cure adeguate alla stragrande maggioranza della popolazione.

Singolare fu  la sua definizione riguardo  alla monopolizzazione dei  farmaci  da parte di  Big Pharma: un “genocidio selettivo nel  settore sanitario”, frase che volle ridefinire in quella di  “assistenza sanitaria universale”.

La cura dell’elefante

171215

Al proverbiale detto che vuole l’elefante avere un’ottima memoria, si potrebbe aggiungere che, oltre a questa caratteristica, l’animale gode di una buona salute che lo preserva dai  rischi  del  cancro.

Si è giunti  a questa considerazione dopo  uno  studio effettuato  dalla Huntsman Cancer Institute (University of Utah) in collaborazione con  l’ospedale pediatrico e l’Hogle Zoo di Salt Lake City, e con il Ringling Bros. Center for Elephant Conservation.

La ricerca, pubblicata sul Journal of American Medical  Association, si  basa sul fatto  che meno  del 5% degli  elefanti muoiono  per il cancro (per gli  esseri umani questo tasso  varia dal 11 al 25%).  Inoltre, considerando le proporzioni  fra elefante ed essere umano dove il primo  ha all’incirca 100 volte più cellule del  secondo, le mutazioni  genetiche delle cellule, causa di  cancro,   nell’elefante  sono  minori.

Questo perché nel corredo  genetico dell’elefante vi  sono 40 copie di  un gene che codificano il  soppressore dei  tumori P53: negli  esseri umani le copie di questi  geni  sono  solo  due.

La notizia ha immediatamente sollecitato l’idea di una possibile cura contro  le forme tumorali umane: un team di scienziati della Technion – Israel Institute of Technology di  Haifa, si  è posto l’obiettivo di  creare un nuovo  approccio  terapeutico  per il cancro  basandosi sulla ricerca dei  colleghi statunitensi.

Lo studio è ai suoi  primi  passi e ci  vorrà tempo  affinché trovi un’applicazione clinica: nel  frattempo possiamo  ringraziare gli elefanti per averci indicato una strada verso future e possibili  guarigioni.

Una “Stella Solitaria” molto fastidiosa

Esemplare di Lone Star

Esemplare di Lone Star

La Lone Star (Ambylomma Americanum)  è una particolare specie di  zecca comune nel sud degli  Stati Uniti e la loro  diffusione, e pericolosità per le malattie che possono trasmettere, è stato oggetto  di una recente ricerca sul loro  comportamento nutrizionale.

Jerome Goddard, entomologo della Mississippi State University si è offerto come volontario, insieme a sua moglie ed altre dieci  persone, come cavia per il “pranzo” delle zecche.

Naturalmente gli insetti utilizzati  sono  stati certificati  come esenti  da malattia, ma avere una ventina di  zecche sul braccio che si nutrono di  sangue non deve essere un’esperienza facile (al meno  per coloro  che sono deboli  di  stomaco).

La ricerca, comunque,  era finalizzata a conoscere gli  effetti  del morso  della zecca sul  corpo umano: alcuni  dei  volontari hanno riscontrato una reazione quasi immediata con prurito  e presenza di  vescicole sulla pelle, segno  dell’aggressività di  questo  tipo  di morso.

I medici, dietro all’analisi  di  questi  risultati, potranno  diagnosticare meglio la causa di morsi sulla pelle dei loro  pazienti (causa non sempre diagnosticata correttamente) e studiare la profilassi per le malattie trasmesse dalle Lone Star.

Tra i virus che le zecche possono  trasmettere ve ne uno in particolare che ha effetti pericolosi  per il cuore ed un’allergia per le carni  rosse (qualche buontempone aggiunge che la zecca “aiuta” a diventare vegetariani).

In Italia, per nostra fortuna, le “Stelle solitarie” non sono  presenti. Con questo non vuol  dire che, girovagando lungo i  sentieri  dei nostri  boschi, non possiamo  essere attaccati  dalle zecche. Ed è per questo motivo che bisogna seguire alcune accortezze sia per prevenire che per curare l’attacco  di una zecca.

Nel  box seguente un utile vademecum pubblicata dall’Azienda per l’Assistenza Sanitaria   n.3 Alto  Friuli

 

La “sindrome di Tucidide” fu Ebola?

230615

 

Nella cronaca dovuta ai   media non è più restata traccia dell’epidemia di Ebola, se non per riportare la  guarigione di coloro  che si  sono  infettati portando aiuto nelle zone dell’Africa colpite dal  virus.

Eppure, se pur in un altro  contesto  scientifico  come quello  che riguarda l’archeologia, Ebola riserva delle sorprese: Powel Kazanijan, professore di storia presso l’Università del  Michigan, si  dice sicuro che il virus dell’Ebola può essere stato la causa dell’epidemia che colpì Atene nel 430 a.C.

Testimone di  allora fu Tucidide che, ammalatosi  anch’egli e sopravvissuto all’epidemia, ne descrisse i  sintomi nella sua cronaca de “La guerra del Peloponneso”:

<<….senza nessuna causa apparente [essi], d’improvviso, mentre fino  ad allora erano  sani, erano  dapprima colti da forti  calori  alla testa, da rossore ed infiammazione degli occhi. Gli organi interni, lingua e faringe, s’invermigliavano subito  di  sangue, esalando un fiato strano  e puzzolente. A questi  sintomi  tenevano dietro starnuto  e raucedine. Non passava molto  che il male scendeva nel petto, producendo  forte tosse.. quando il male era penetrato  nello  stomaco, si  avevano  nausee, e sopraggiungevano  tutti  quanti  gli  spurghi  di  bile. Nella maggior parte dei casi sopravvenivano  conati  di  vomito che producevano  forti convulsioni. Il corpo, a toccarlo, non era all’esterno  eccessivamente caldo e neppure pallido, ma rossastro, livido, coperto  di piaghe e pustolette. Di  dentro invece i malati  ardevano tanto  che non sopportavano neppure il contatto  di  vesti e lenzuoli  leggerissimi o  di  qualsiasi  indumento: solo  nudi  resistevano. Le forze del  corpo, per tutto il tempo  che la malattia era nella fase acuta, non venivano meno, offrendo alle sofferenze una resistenza inaspettata: sicché i più morivano  al nono o  al settimo giorno per effetto  dell’arsura interna, mantenendo  fino  allora qualche riserva di  energia. Se superavano questa fase, il male scendeva nel  ventre, ove si  formava una suppurazione violenta e,  sopravvenendo intanto una violenta diarrea,, i più morivano in seguito  di  esaurimento……>>

Questa vivida descrizione del decorso  della malattia e dei  suoi  sintomi, ha consentito a Powel Kazanijan di  fare delle speculazioni sulla provenienza del virus di  quella tremenda epidemia: infatti, sempre secondo  la narrazione di  Tucidide, l’epidemia (definita anche come “sindrome di  Tucidide”) iniziò in quella regione che lo  storico  ateniese chiamava “dell’Etiopia” e che per gli  antichi indicava le regione dell’Africa sub-sahariana la stessa,  quindi, dove il virus Ebola si  è manifestato in tempi  moderni  partendo  dal  primo  focolaio  del  1976.

La trasmissione della malattia fu  dovuta all’emigrazione di  genti sub-sahariane in Grecia per lavorare come agricoltori ( oppure presi  come schiavi) portatori, alcuni  di  loro, del  virus.

Lo  studio  di Kazanijan, pubblicato  sul numero  di  giugno  dalla rivista medica   Clinical Infectious Diseases, è stato  accolto da altri studiosi  come ipotesi in quanto, per loro,  l’epidemia di  Atene del 430 a.C. poteva avere altre cause generate da malattie  come l’antrace o la peste bubbonica:  il mistero rimane.

 

 

Una malattia vecchia di 6.000 anni: la schistosomiasi

Schistosoma mansoni al microscopio elettronico a scansione

Schistosoma mansoni al microscopio elettronico a scansione

La schistosomiasi è una malattia causata da  Platelminti (Vermi  Piatti) del genere Schistosoma: il passaggio  nell’uomo può anche avvenire attraverso ospiti  intermedi  quali   alcuni molluschi  gasteropodi  di  acqua dolce.

Il parassita penetra attraverso la pelle e l’individuo  adulto si annida nei reni, nell’intestino o altre parti  del  corpo,  causando febbre, dolori, vomito  e paralisi  delle gambe.

Nel 1910 Marc Armand Ruffer, inaugurando  un nuovo  ramo  della parassitologia e cioè la paleoparassitologia, trovò uova calcificate di S. haematobium negli apparati urinari  di due mummie egizie della XX dinastia (1188 a.C. – 1069 a.C.): questo “record” è stato  recentemente superato  dallo  scheletro di un bambino  in  una tomba di 6.200 anni  fa in Siria settentrionale.

Ed è appunto  in questo  scheletro che è stato  rilevato  la presenza di uova calcificate del parassita.

È da tener presente che fino  dall’Età del  Bronzo, l’agricoltura in Medio  Oriente in quella zona definita come  Mezzaluna Fertile (di  cui  fa parte anche la Siria), dipendeva in massima parte dall’irrigazione: quindi è plausibile un alta incidenza di  casi  di schistosomiasi  tra gli  antichi  agricoltori, e anche nel  resto  della popolazione.

Del  resto  ancora oggi nei Paesi in via di  sviluppo i metodi  adottati in agricoltura non sono  dissimili  da quelli di  secoli  fa nella Mezzaluna Fertile e la schistosomiasi  colpisce centinaia di migliaia di persone all’anno.

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