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I rotoli di En – Gedi

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Il rotolo di En _ Gedi Credit: Da Seales et al, Sci.. Adv. 2: e1601247 (2016). Distribuito sotto Creative Commons Attribution Non Commercial License 4.0 (CC BY-NC).

 

Nel 1970, nell’oasi  di  En – Gedi  (Israele), gli archeologi  trovarono una pergamena   risalente all’incirca  al 612 a.C.

In quel  sito, tra il 700 a.C. ed il 600 d.C., prosperava un’antica comunità ebraica, la fine di  essa è testimoniata dai  resti  dovuti  ad un grande incendio. Tra questi  resti una cassa contenente rotoli in pergamena ( o in pelle d’animale) carbonizzati.

I rotoli, data la loro condizione, non potevano  essere manipolati pena la loro  stessa disintegrazione.

La tecnologia ha però permesso  la lettura di uno di  questi  rotoli (i quali, similmente ai  “Rotoli  del  Mar Morto, prendono il nome di  “Rotoli  di En- Gedi) che, presubilmente, tratta parte del  Levitico nella Bibbia ebraica.

Dapprima si è utilizzata una scansione a raggi X micro – computerizzata (Micro – CT) per evidenziare un eventuale testo  scritto  al  suo interno. Quindi si è proceduti ad una scansione con risoluzione sempre più alta. Ciò, pur consentendo   di  rilevare strati  d’inchiostro, dava sempre come risultato un testo illeggibile.

A questo punto  si  è ricorso  ad una complessa analisi  digitale chiamata virtual unwrapping.

Nel  video  seguente le fasi  di utilizzo di  questa particolare tecnologia.

 

 

Il quarto libro dei Maya è autentico: il Codice Grolier

Un antico  libro  Maya: il Codice Parigi

Un antico libro Maya: il Codice Parigi

 

Il ritrovamento negli  Anni ‘60 di   un manoscritto in lingua maya, risalente al periodo  preispanico, sarebbe degno  di un racconto  basato  sulle gesta dell’intramontabile archeologo – eroe Indiana Jones.

Infatti, il manoscritto  venne trovato  da alcuni  tombaroli in una grotta dello  stato  messicano  dello  Chiapas. Nel 1965 venne acquistato dal  collezionista messicano Josué Sàenz e, nel 1971, esposto al  Grolier Club di  New York (da cui prese il nome di  Codice Grolier).

Il Codice Grolier, una volta accertata la sua autenticità, potrebbe essere il più antico manoscritto in lingua Maya dei  quattro oggi  conosciuti: oltre ad esso gli  altri codici  sono  quello il Codice di Dresda,  il Codice di  Madrid ed il Codice di  Parigi (prendono  ovviamente il nome dalla città che li  conserva).

A questo punto è bene ricordare che i Maya, pur non avendo prodotto  molti documenti  scritti, hanno utilizzato  come supporto per la scrittura materiale organico (cortecce di  vegetali) che nel tempo  venivano  deteriorate dal  clima umido  dell’America centrale, per non parlare della distruzione avvenuta per mano  dei cristiani  europei che vedevano  in questi  manoscritti opere eretiche.

Ritornando  al  Codice Grolier esso è composto  da dieci  pagine contenenti  geroglifici  Maya, raffigurazioni di  divinità e un calendario con gli  spostamenti  di Venere (pianeta importante nella cultura Maya per eventi  religiosi) che ricopre un arco  di  tempo  di 104 anni.

Si è detto in precedenza che il Codice Grolier, per la  rocambolesca vicenda riguardante la  vendita al  collezionista messicano, è stato  da molti  ritenuto per anni un falso.

A questo  ribadiscono coloro  che vedono nel  Codice Grolier un autentico documento  Maya, adducendo  al fatto  che analisi al  radiocarbonio confermano  che i testi  sono  stati  scritti  nel primo periodo  post – classico (900 – 1200 d.C.  – vedi  tabella fine articolo) e che le divinità raffigurate nelle immagini  non erano  ancora state scoperte al momento del  ritrovamento. Inoltre, un particolare pigmento presente sui  fogli  chiamato  “Maya blu” , è stato possibile sintetizzarlo in laboratorio solo dopo il 1980.

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Afghan Geniza

 National Library of Israel: Afghan Geniza (frammento)

National Library of Israel: Afghan Geniza (frammento)

Nel 2011 la rete televisiva israeliana Channel 2 riferì di una particolare scoperta avvenuta, in maniera fortuita, nella provincia afgana di Samangan: si  trattava del  ritrovamento in una grotta di migliaia di  frammenti di  manoscritti in lingua ebraica vecchi  all’incirca di  mille anni.

A questo  corpus di  documenti  venne dato il nome di Afghan Geniza (Genizah indica in ebraico la parola ripostiglio).

Molti  di  questi  frammenti  vennero  venduti al  mercato  clandestino dei  trafficanti  di reperti  archeologici. Solo 29 di  essi, nel 2013, vennero acquistati dalla National  Library of Israel.

I frammenti rappresentano  quello  che erano  documenti riguardanti atti legali e di  compra vendita, ma anche frammenti  di poesia persiana e lettere personali.

Tra di  essi, quello che ha rivestito un maggior interesse storico, è un commento al  Libro  di  Isaia scritto nel 10° secolo  dal rabbino  Saadiah ben Yoseph Gaon  che fu anche  il primo  ebreo a scrivere in lingua araba.

Afghan Geniza servirà ad una maggiore comprensione della vita di una comunità ebrea pienamente integrata in una società mussulmana.  

 

E’ la tomba di Aristotele?

Copia romana in Palazzo Altemps del busto di Aristotele di Lisippo

Copia romana in Palazzo Altemps del busto di Aristotele di Lisippo

Per l’archeologo greco Konstantinos Sismanidis la tomba del filosofo  Aristotele si  troverebbe a Stagira (l’odierna Olympiada, nella penisola Calcidica) che fu, per l’appunto, la sua città natale.

La tomba, secondo  quanto  dice Sismanidis, sarebbe  un piccolo  edificio con pavimenti  ed altare in marmo. L’edificio è contiguo con una grande struttura circolare che avrebbe avuto  la funzione di luogo  di  ritrovo per gli  abitanti.

La storia dice che Aristotele sia morto sull’isola di Eubea nel 322 a.C., ma Sismanidis afferma che  Claudio  Tolomeo (85/90 d.C. – 165/168 d.C.) in un suo  documento dice che le ceneri  di  Aristotele furono portate a Stagira.

Ma la maggior parte degli  archeologi non è convinta del affermazione del  loro  collega, infatti, a confutare tale tesi, nella tomba di Stagira (ritenuta tale dall’autore della scoperta) non ci  sono  resti umani, tanto  meno  iscrizioni  che citano il grande filosofo  greco.

 

 

Filtri d’amore e maledizioni nei papiri di Ossirinco

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Per – Medjed  – meglio conosciuta come  Ossirinco, nome  datole dopo  la conquista dell’Egitto  da parte dell’esercito  di  Alessandro  Magno – fu un autentica miniera di papiri che, più di un secolo  fa, diede fama a due archeologi  dell’Università di  Oxford: Bernard Grenfell e Arthur Hunt.

I papiri, in gran parte documenti pubblici e privati  risalenti al periodo greco –romano, si conservarono  nel  tempo  grazie alle condizioni  climatiche ed ambientali della zona interessata dagli  scavi.

Come si  è detto i testi della maggior parte dei  papiri  riguardano atti privati  e pubblici, sennonché, grazie alla traduzione del  ricercatore italiano Franco Maltomini (Università degli  Studi  di  Udine, si è arrivati  alla scoperta di  due testi contenenti  “incantesimi d’amore” e sortilegi per sottomettere un individuo  ai  propri  voleri.

I due testi, risalenti a 1.700 anni  fa e di  cui  sono  sconosciuti  gli  autori, non indicano le persone oggetto dell’incantesimo in quanto, come se fosse un modulo da redigere, hanno lo spazio  per inserire il nome del  destinatario del  sortilegio.

Sul retro  di uno  dei due papiri, il più malevolo  per il contenuto, è stato  decifrato la “ricetta” che, utilizzando escrementi  di  animali, avrebbero procurato alla vittima dolori  di  mal di  testa e, persino, malattie come la lebbra.

Oggi  ci  sono i social-network a veicolare ogni  genere di maledizione ma, come allora, l’autore si  nasconde, magari  dietro ad un nickname.

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La paurosa tradizione degli “Unni bianchi”

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Se a guardare l’immagine in alto  vi viene in mente di  associarla alle spoglie di un extraterrestre fuggito  dalla famigerata “Area 51”, sappiate che quei poveri  resti  sono  quelli di un uomo vissuto  in un periodo  compreso  tra il 940 ed il 1308 d.C.

Inoltre, a fugare ogni ipotesi  fantascientifica, lo scheletro non è stato  rinvenuto nel  Nevada (sede dell’Area 51) ma in un sito  chiamato “El Cementerio” a nord-est dello  stato  di  Sonora in Messico.

La scoperta risale all’anno 1999, e la caratteristica che risulta subito  evidente, cioè la deformazione del cranio, è stata osservata in altri  reperti scoperti in Afghanistan.

Gli “Unni bianchi”, così veniva chiamata una tribù di nomadi iraniani  e la cui  denominazione corretta è Eftaliti,    si stabilirono in Battriana  (nord dell’Afghanistan). Tra le loro  tradizioni  vi  era quella  di  fasciare strettamente il cranio  dei neonati  al  fine di  farlo  sviluppare in altezza.

A questa consuetudine se ne accompagnava un’altra non meno terribile: arrivati  all’età dell’adolescenza ai  maschi  venivano  praticate profonde incisioni sul volto.

Lo scopo di  questi interventi era uno  solo: rendere temibile alla vista dei nemici  l’apparizione di uomini con la testa a forma di  cono  ed il viso pieno  di  cicatrici.

Forse anche Alien davanti  a tale vista sarebbe fuggito.

Simboli e tatuaggi su di un’antica mummia egizia

I tatuaggi sulla mummia scoperta a Deir el-Medina

I tatuaggi sulla mummia scoperta a Deir el-Medina

Deir el-Medina è un sito  archeologico posto  sulla riva occidentale del Nilo.

Qui, in epoca risalente tra il 1550 a.C. ed il 1080 a.C., sorgeva un villaggio che ospitava soprattutto la manovalanza utilizzata per la costruzione delle piramidi  della Valle dei  Re.

È da notare che in questo periodo, precisamente intorno  al 1250 a.C. quindi  riferibile alla XVIII dinastia, compare per la prima volta nelle tombe il Libro  dei morti riportante formule magiche volte ad assicurare il transito  nell’Aldilà.

Ed è proprio una recente scoperta a Deir el-Medina che ci  riporta alla magia dell’antico  Egitto. Questa volta non si  tratta di iscrizioni sulle pareti o  sui  sarcofaghi, ma di  simboli  tatuati sul corpo  di una mummia di  sesso  femminile.

I  simboli  rappresentano fiori  di loto, mucche ed occhi  divini: le immagini  non sono  disegni  astratti ma, per la loro riconoscibilità, sembrano essere legati ad uno  status religioso o  a pratiche rituali.

Infatti, dopo  attente analisi  sulla mummia, si è  giunti  alla conclusione che i  tatuaggi siano  stati  eseguiti  molto prima del processo  di mummificazione.

Per alcuni  di  essi  si  sta ancora studiando  per dare loro un significato, per altri è invece certa l’associazione con  la dea Hathor (mucche con collane ornamentali)  e, dove i tatuaggi  raffigurano  dei  serpenti, con altre divinità femminili egiziane.

Soprattutto i simboli  tatuati sulla gola della donna rappresentano  simboli  di protezione di un potere richiamato  attraverso la recitazione di  formule magiche o canti.

In ogni  caso il ritrovamento  di  simboli  tatuati – il primo del loro genere trovato  su  di una mummia egiziana – portano  a nuove conoscenze sul significato simbolo  del  tatuaggio nella cultura antica egiziana.

Zampe di lucertole per le pitture rupestri di Wadi Sura II?

Wadi Sura II (grotta delle Bestie) - pitture rupestri autore dell'immagine: Clemens Schmillen

Wadi Sura II (Grotta delle Bestie) : pitture rupestri.
Autore dell’immagine: Clemens Schmillen

Wadi Sura II è un’enorme grotta naturale posta sull’altopiano  del Gilf Kebir, nella parte egiziana del  deserto libico.

La particolarità di  questa grotta, scoperta dall’archeologo  Massimo Foggini nel 2002, è quella di  avere le pareti ricoperte da pitture rupestri risalenti  al periodo  del  Neolitico quando, ottomila anni  fa,   il clima del  Sahara era ancora  umido.

Le pitture rupestri (all’incirca cinquemila) rappresentano animali e centinaia di  mani  umane, con stencil di quelle che potrebbero  essere zampe di lucertola e non, come si  era ipotizzato in precedenza, mani  di  bambini.

Ad arrivare a questa conclusione è stata la ricercatrice francese Emmanuelle Honorè: per lei  le pitture in esame sono  troppo piccole e sottili  per essere quelle di un bambino. Per avere conferma alla sua tesi, ha chiesto ed ottenuto l’aiuto della Lille University Hospital  (Francia del nord) che ha fornito le misurazioni delle mani  di 25 bambini prematuri  e di 36 bambini nati normalmente, naturalmente vi è stato il consenso  dei  genitori che hanno accettato  con entusiasmo di  contribuire ad uno studio scientifico.

I risultati sono  stati positivi, nel  senso  che le pitture non rappresentavano  mani  di  bambini. A questo punto  la domanda posta era quella di  scoprire qual era il oggetto utilizzato  per gli  stencil.

L’analogia con altre pitture rupestri scoperte in altri siti come, ad esempio, quello della Cueva de los Manos in Argentina,  in cui  zampe d’animale fungevano  da modelli, ha portato  alla stessa conclusione per quanto  riguarda Wadi Sura II.

Rimane ancora da chiarire  lo scopo per il quale   gli  antichi  popoli  abitanti il Sahara abbiano dipinto le pareti di Wadi  Sura II e quelle di  Wadi  Sura I posto  a dieci  chilometri più ad est: è probabile che il mondo  mitologico  raffigurato sia in diretta connessione con i riti ancestrali  di  quella civiltà.

 

 

 

I vichinghi alla scoperta dell’America

Modello di nave vichinga

Modello di nave vichinga

 

Quante sono le città che si  attribuiscono l’onore di  aver dato i natali  a Cristoforo  Colombo?

L’ultima, in ordine di  tempo, è una piccola cittadina della riviera di  ponente di  Genova: Cogoleto.

Qui, dopo accurate ricerche storiche, gli  studiosi locali sono  arrivati  alla conclusione che il grande navigatore doveva essere per forza nato lì (peccato  che a Cogoleto non vi  sia neanche uno  straccio  di museo dedicato  al loro  illustre, e presunto, concittadino).

Dunque, se dove è nato Cristoforo  Colombo è argomento di  dibattito tra studiosi votati a svelarne il (pseudo) mistero, possiamo  essere certi  che Lui sia l’unico ad aver scoperto l’America (in senso  geografico) quel  fatidico  giorno  del 12 ottobre del 1492.

Anche questo, però, è messo in discussione dal  fatto che, ben  prima di  Cristoforo  Colombo, furono  i vichinghi a raggiungere le coste del  continente americano.

Nel 1960, sulla punta settentrionale di  Terranova in Canada, l’esploratore norvegese  Helge Ingstad e sua moglie, l’archeologa Anne Stine Ingstand, scoprirono i resti  di un villaggio  vichingo risalente all’anno Mille.

Anse aux Meadows, è questo il nome del sito  archeologico, è dal 1978 Patrimonio dell’umanità dell’Unesco.

Il  sito di  Anse aux Meadows fu però un insediamento provvisorio che ebbe solo pochi  anni  di vita: altri  indizi che stabilissero la presenza dei  vichinghi in America non si  ebbero, almeno  fino  ai  giorni  nostri.

Infatti, l’archeologa americana Sarah H.Parcak, combinando le più avanza tecnologie satellitari con la lettura delle saghe medievali nordiche, è riuscita ad individuare un secondo  sito vichingo  posto  a circa 300 miglia più a sud rispetto a Anse aux Meadows: cioè  a Point Rosee.

Questo nuovo  sito, secondo  le parole di Sarah H. Parcak, potrebbe risolvere molti  quesiti sul fatto  che furono i vichinghi i primi  europei ad esplorare il Nuovo Mondo.

C’è da considerare, però, che i  vichinghi  non hanno  lasciato  dietro  di  se resti di  tale entità da ricostruirne per certo  la loro  storia in America.

È sicuro, però, che le ricerche archeologiche andranno avanti e, quindi,  sono ipotizzabili nuove scoperte sulla vita di  questi intrepidi  navigatori  arrivati dalle lontane  terre  del nord Europa.  

Incisioni rupestri in Liguria: Il “Ciappo del Sale”

Ciappo del sale

Parlando  di incisioni  rupestri in Italia il riferimento  va subito  a quelle presenti  nel  Parco  Nazionale delle Incisioni  Rupestri  di Naquane in Valcamonica.

Eppure, se pur meno  famose di quelle lombarde, l’Italia è ricca di  siti archeologici dove si possono ammirare i  soggetti di  quest’antica arte rupestre.

Anche la Liguria può dare il suo contributo a questo particolare patrimonio  culturale nazionale con diverse tipologie di petroglifi.

In particolare nell’articolo si parlerà del Ciappo del Sale nei pressi  della Val Ponci (Finale Ligure) a 340 metri  di  altitudine.

Le incisioni, per lo più risalenti  al tardo neolitico, sono  rappresentate da coppelle, unite tra loro  da canali, e croci: per quest’ultime si pensa che la loro creazione possa essere fatta risalire partendo  dal  Medioevo.

La funzione delle  coppelle  è ancora oggetto  di  studio,  in quanto  le ipotesi vanno da una funzione simbolica legata ad antichi  riti cultuali, fino ad “indicazioni topografiche” per la possibilità che il Ciappo del  Sale si  trovasse nelle vicinanze di  vie di  transito per gli  abitanti  di  allora.

Altre tesi, questa volta molto più fantasiose e possibilmente da escludere a priori, vogliono  che le coppelle e relativi  canali servissero a raccogliere il sangue di  vittime sacrificali dedicate a qualche divinità (c’è anche chi  parla di  “mappe astrali””…..).

Il toponimo, comunque, è riferibile certamente ad un’età più moderna, quando  le “vie del  sale” erano  di  fondamentale importanza per l’economia locale.

Per raggiungere il pianoro  roccioso  del  Ciappo  del Sale  si possono utilizzare diversi  sentieri di  facile percorribilità in quanto  inseriti nella rete escursionistica del  finalese e per questo  dotati  di  appositi  segnavia.

Noi vi  consigliamo il percorso  che, partendo da Calvisio  Vecchio e seguendo il  segnavia con rombo  rosso pieno, dopo  due ore di  cammino in leggera pendenza, ci porterà da prima al “Ciappo  dei  Ceci”  (altro  sito  archeologico con petroglifi  similari  a quelli  della nostra meta) e da qui, questa volta seguendo il simbolo di un quadrato  rosso pieno, dopo  mezz’ora di  cammino  ci porterà al  Ciappo del  Sale. Volendo, seguendo il segnavia, si può proseguire fino  al paese di  San Lorenzino interessante per la sua chiesa risalente al XII secolo.

 

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