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Aiutiamo con una mail la nascita del Parco naturale Alta val Borbera

Immagine tratta dal sito del Comune di Carrega Ligure

Mentre in Liguria si  discute sulla chiusura o meno del Parco  naturale regionale  Montemarcello  Magra considerato improduttivo, come se un parco  regionale fosse istituito per fare cassa e non per la protezione della natura, c’è un piccolo  borgo  nell’alessandrino che chiede che ne venga istituito uno nel  suo  territorio.

Carrega Ligure, la cui popolazione non raggiunge i  cento  abitanti,   come si è detto si  trova in Piemonte (quel Ligure nel  nome non deve ingannarci) in provincia di  Alessandria sull’Appennino  Ligure nell’Alta Valle Borbera immerso in un ambiente montano  ricco dal punto  di  vista naturalistico  ed attiguo al Parco regionale dell’Antola.

Il territorio, quindi, è quella di un’area tipicamente appenninica sia dal puto di  vista geologico che naturalistico  con la presenza di  estese faggete, praterie di  quota e abbondanti  fioritura. Mentre, per quanto  riguarda la fauna, vi  è la presenza di  specie endemiche di anfibi  quali la rana appenninica (Rana italica) e la salamandrina di  Savi (Salamandrina perspicillata) .

Per combattere l’abbandono  di  un territorio che a tutte le ragioni  per essere considerato un tassello importante dell’Appennino  Ligure su iniziativa del  giovane sindaco  del paese, Marco  Guerrini – iniziativa che ha incontrato il consenso unanime degli  abitanti  di  Carrega Ligure –  è stato lanciato il progetto  per la costituzione di un nuovo Parco  naturale, cioè quello che dovrebbe diventare entro  la fine dell’anno il Parco  naturale Alta Val  Borbera.

A sostegno del progetto, oltre ovviamente i  diretti interessati, sono state le ottocento  firme raccolte con una petizione via mail: sono tante, ma bisogna raccoglierne sempre di più affinché il progetto non venga abbandonato  o rimandato a tempo  da destinarsi.

Perché la costituzione di un nuovo parco  naturale è un arricchimento non solo per chi  abita quel  territorio, ma per tutti noi che amiamo  il profumo  della natura.

Se  interessati  al progetto  Parco  naturale Alta Val Borbera si può mandare una mail al  seguente indirizzo:

[email protected]

 

 

Greenways: dalle strade ferrate a quelle ciclo pedonali

Tratto del percorso ciclo pedonale su ex sede ferroviaria tra Cogoleto e Varazze in Liguria

 

Settecentocinquanta chilometri  su ottomila: è questa la lunghezza totale che fino  ad ora ha consentito la conversione di  tratti  ferroviari  dismessi  in Italia in percorsi  ciclo – pedonali.

I restanti  chilometri (tanti) una volta riutilizzati  all’uso  di un turismo  consapevole, potrebbero essere un volano  per il tornaconto dei  luoghi interessati al progetto  greenways.

Naturalmente, considerando  gli  alti  costi da parte degli  Enti locali per l’acquisto del  tracciato  e del progetto  di  riconversione (si parla di  decine di  migliaia di  euro  per chilometro), è necessario  che dal  voto del prossimo 4 marzo, dopo il diluvio  di promesse da parte dei  contendenti  al  governo della nazione (molte di  esse solo ipotizzabili), si parli di  cose concrete come, appunto, l’aiuto per i progetti dell’economia legata al  turismo e alla protezione della natura.

Se si  è interessati  a conoscere quali  sono  le ferrovie dismesse in Italia, l’Associazione italiana Greenways ha predisposto un database molto  aggiornato ed aggiornabile dagli utenti  stessi. 

Sul sito sono in vendita anche pubblicazioni sull’argomento del  turismo  verde, in special modo quello  che concerne il progetto  Greenways.

 


 

Dal  Blog di  Caterina Sui Sentieri della Libertà

Ricapitolando…l’ambiente: l’ISPRA informa

 

In quale stato si  ritrova l’ambiente in cui  viviamo?

Le dinamiche per definirne lo  stato  sono  molteplici  quanto  i dati  che le compongono, a fare   chiarezza ci prova l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA), attraverso la sua pubblicazione Ricapitolando……..l’ambiente.

Il testo, attraverso  un linguaggio aperto  a chiunque abbia interesse all’argomento, affronta oltre alle tematiche propriamente ambientali quali  inquinamento atmosferico  e qualità delle acque, oltre che aspetti  della biodiversità anche quelle riguardanti il campo  medico (Indice pollinico  allergenico), le pericolosità naturali  e chimiche.

Non mancano  dati  messi  a confronto  con le altre realtà europee.

  MODULO  PER LA RICHIESTA DELLA BROCHURE – PdF

#SOSLUPO

lupoJpeg

Dopo  anni passati  a combattere per far si  che il lupo (Canis lupus) tornasse a vivere nei  nostri  boschi, ecco che un’iniziativa del ministero  dell’Ambiente potrebbe mettere in serio pericolo tutti  gli  sforzi che fino ad oggi sono stati  fatti per la reintroduzione del predatore.

Il nuovo Piano di  conservazione e gestione del lupo in Italia, preparato  dal ministero in collaborazione con l’Unione zoologica italiana, prevederebbe l’abbattimento  di  sessanta esemplari ogni  anno.

Un numero certamente molto alto rispetto  alla reale consistenza dei  branchi ambienti  naturali.

Bisogna inoltre ricordare che il lupo in quanto  specie protetta rientra nella direttiva comunitaria Habitat del 1992, recepita dal nostro ordinamento con il Dpr n. 357 del 1997 (per la lettura del  documento  si  rimanda al box dell’articolo  precedente a questo). Tale direttiva consente solo l’abbattimento  di singoli esemplari ritenuti  pericolosi per l’uomo e non certamente una “mattanza”.

C’è da dire che il Piano di  conservazione e gestione del  lupo non riporta solo  la possibilità di  abbattimento, ma anche una decisa presa di posizione contro il bracconaggio con l’inasprimento  delle pene e, contemporaneamente, opere di informazione e divulgazione per avvicinare la conoscenza da parte della popolazione di  questo  canide.

Queste ultime considerazioni  hanno  trovato l’accordo  con il Wwf Italia che, mettendosi  letteralmente “dalla parte del lupo”, ha dato  vita ad una petizione online (#soslupo) per evitare gli  abbattimenti  legali del lupo  nel nostro  Paese.

 

 

 

 

 

 

 

 

Una miniera nella profondità dell’oceano Atlantico

I noduli  di  manganese scoperti  nella spedizione scientifica in Atlantico nel  gennaio 2015

I noduli di manganese scoperti nella spedizione scientifica in Atlantico nel gennaio 2015

 

Si può dire che è stata una “pesca miracolosa” quella effettuata dagli scienziati a bordo  della nave oceanografica tedesca Sonne, avvenuta nell’oceano  Atlantico, a centinaia di chilometri  ad ovest di Barbados, lo scorso mese di gennaio.

Nella slitta utilizzata per il dragaggio del  fondo oceanico il contenuto non è risultato di natura animale, bensì di natura minerale: sfere di metalli pesanti  delle dimensioni  che andavano da quelle di una pallina da golf a quelle di una palla da softball. Immagini trasmesse dalle fotocamere della slitta hanno mostrato un vasto  campo  di  questi  noduli composti  per lo più da manganese, che risulta essere  il più grande deposito  finora scoperto nell’Atlantico.

Il geologo Colin Devey, responsabile scientifico della spedizione patrocinata dal GEOMAR Helmholtz Centre for Ocean Research di  Kiel  (Germania), ha confermato l’eccezionalità del  ritrovamento ribadendo  che, fino  ad oggi, i più grandi  giacimenti di questo tipo  di noduli sono localizzati nell’oceano  Pacifico.

L’età di  alcuni  di questi noduli  può risalire fino  a 10 milioni  di  anni  fa. Considerando  che la loro crescita è di  quasi cinque millimetri ogni milione d’anni,  si può avere uno  spaccato  di  quello  che poteva essere la conformazione geologica dell’ambiente marino  nelle ere passate.

Rimane, comunque, un mistero  di  come si  siano  formate queste sfere.

Insieme al manganese, la composizione delle sfere è costituita da rame, nichel e cobalto. Insieme a questi  elementi  vi è anche la presenza di  quelli denominati come terre rare fondamentali  per la tecnologia utilizzata negli smartphone ed altri  dispositivi elettronici.

Quest’ultimo fattore ha innescato un dibattito sul rischio  ambientale qualora si  decidesse di operare l’estrazione dei noduli  nelle acque profonde degli oceani:  gli stessi  scienziati  della GEOMAR hanno  dichiarato  che, prima di iniziare potenziali azioni  estrattive, bisogna approfondire la conoscenza delle dinamiche ambientali  delle acque profonde degli  oceani.

 

 

 

Water(on)line: un sito nato “sull’acqua”

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Wateronline mantiene le promesse del suo sottotitolo e cioè quello di essere Giornale d’acqua (ambiente e paesaggio).

Tutte le informazioni riguardanti dalla politica all’economia, dall’ambiente al paesaggio (temi legate all’acqua) sono molto approfondite e ricche di spunti per tutti i lettori.

D’altronde non poteva essere diversamente considerando che la realizzazione di Wateronline è nata da un progetto voluto  dal  Corso  di  Giornalismo e Cultura Editoriale del  Dipartimento di  Italianistica dell’Università di  Parma: una garanzia per la professionalità dei  contenuti

 

Antiche strutture scoperte in Amazzonia

Foresta pluviale amazzonica  Foto: Cesar Paes Barreto

Foresta pluviale amazzonica
Foto: Cesar Paes Barreto

 

E’ recente la scoperta di  strutture circolari e fossati in Amazzonia tra il Brasile e la Bolivia.

A cosa fossero destinate tali  strutture è ancora oggetto  di  studio: si pensa che potessero  servire come luoghi  di  culto ma anche come strutture di  difesa o  canali  di  drenaggio.

La questione a seguito  di  questi  ritrovamenti è però un’altra: di  quando  prima dell’arrivo  degli  europei  le antiche popolazioni iniziarono  ad alterare il paesaggio.

Per John Francis Carson, ricercatore presso l’Università di Reading (UK), lo  sfruttamento  di un territorio  non  può essere fatto risalire a solo duecento o trecento  anni  addietro,  ma anzi  è iniziato molto  tempo  prima, migliaia di  anni  prima.

Carson e i  suoi colleghi hanno  approfondito  la questione concentrando le loro  ricerche su una zona posta nel  Rio  delle Amazzoni  nel nord –est della Bolivia. Qui, nei  sedimenti  prelevati dai due laghi  principali (Laguna Oricore e Laguna Granja), sono  stati  ritrovati antiche tracce di polline e carbone provenienti da incendi e dalla loro  analisi  si  è ipotizzato  come doveva essere il clima e l’ecosistema ben 6.000 anni  fa.

La sorpresa di  queste analisi  è che i  sedimenti più antichi non corrispondono da un ecosistema paragonabile alla foresta pluviale quanto piuttosto a quello delle savane africane: quindi gli ideatori  dei  fossati hanno iniziato il loro  lavoro  ancora prima che tutto intorno  al loro  ambiente avanzasse la foresta pluviale.

Questo ha aperto anche un dibattito  sulla possibilità che gli abitanti  di  allora potessero  avere anche un effetto sulla composizione della foresta stessa tramite coltivazioni  di  specie commestibili in appositi  frutteti e cambiamento  della composizione chimica del  terreno con effetti più duraturi  nel  tempo.

In pratica, secondo  questa ipotesi, la foresta odierna sarebbe il risultato  di una specie di cooperazione tra uomo e natura.

Chi ha paura del lupo che cattivo non è più?

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Chi ha paura del lupo che cattivo non è più?

Certamente, e a ragione, gli allevatori che si  sentono minacciati dalla presenza del predatore.

Forse i cacciatori i quali, pensando  alle loro possibili prede, vedono  nel lupo un antagonista  per la caccia: ma i lupi, in effetti, più che altro  cacciano  animali vecchi  oppure malati e solo occasionalmente individui  sani.

I cacciatori  sono meno  selettivi.

Per tutto il resto, avere paura del lupo oggi è anacronistico: è “lui” ad aver paura dell’essere umano che l’ha portato alla quasi estinzione.

Riprendendo l’argomento riguardante la predazione negli  allevamenti, quando questi  non sono  causati  da branchi  di  cani  rinselvatichiti, si  ricorre ai  ripari offrendo un giusto indennizzo per l’allevatore che ha subito un danno  dalla predazione e, nel  contempo, offrendo la possibilità di dotarsi  di appropriate difese,  quali  recinzioni  elettrificate e cani  da pastore (con adeguati  corsi per gestire al meglio l’animale che avrà il compito  di  difendere i l gregge, e non azzannare innocenti  escursionisti).

Non tutte le regioni interessate dal  fenomeno  del “ritorno  del lupo” sono preparate ad affrontare al meglio la situazione, fornendo  anche un adeguata informazione sul predatore necessaria per sgombrare il  campo  da equivoci  e false credenze (qualcuno parla ancora li  lupi “paracadutati” da incoscienti  animalisti).

La Regione Marche, in occasione dell’Anno internazionale della Biodiversità, ha messo in atto una serie di iniziative tra le quali il progetto per una Rete Ecologica Regionale per individuare ecosistemi,  habitat e specie:  tra questi il lupo,  fondamentale per l’equilibrio  biologico essendo al vertice della catena alimentare.

Il risultato di  questa ricerca è quella di acquisire nuove informazioni sul lupo necessarie per approntare in modo  adeguato i problemi  sulle attività antropiche (vedi  box).

Il Parco Nazionale della Majella, insieme a quello  del Pollino  e Foreste Casentinesi ed ancora altri enti pubblici, insieme hanno  dato  vita al progetto Life Wolfnet finanziato  dall’Unione Europea, nell’ambito  del LIFE+ 2008, che ha come obiettivo principale la riduzione dei  fattori  di  rischio  per il lupo, lo sviluppo di modelli ideali  per la sua protezione e gestione della specie nell’ambiente appenninico.

Una labile vittoria per le nostre api

 

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Nella giornata di  ieri 29 aprile, la maggioranza dei Paesi UE (con esclusione non comprensibile dell’Italia) ha votato  a favore di un bando parziale nell’uso  di  pesticidi responsabili  dell’uccisione delle api.

Tali pesticidi neonicotinoidi sono il Clothianidin, l’Imidacloprid e il Thiametoxam  (prodotti dalla Bayer e dalla Syngenta).

La vittoria esprime la forza di una mobilitazione che ha visto partecipare insieme mondo  scientifico, politico  e civile: adesso  bisogna solo  aspettare che la Commissione Europea confermi ufficialmente il divieto.

Bisogna, però, ricordare che il provvedimento è temporaneo e cioè della durata di  soli  due anni: tale breve periodo  è insufficiente per permettere una ripresa numerica delle popolazioni di insetti impollinatori.

La limitazione dei  pesticidi, inoltre, è valido  solo alcune colture: mais, colza, girasole e cotone.

Quindi, in ultima analisi, la battaglia per salvare le nostre api (e la nostra salute) è ancora lunga.

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