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La commercializzazione legale della marijuana per uso medico negli  Stati Uniti sta creando un mercato valutato intorno  a 1,5 miliardi  di  dollari  l’anno.

Dopo il via libera per l’ uso   “ricreativo” della marijuana  nello Stato  di  Washington e Colorado, prevedendo  che ciò si  estenderà anche negli altri   stati dove attualmente la marijuana è utilizzata solo per scopi medicali, gli investitori  pensano  già a come trarre beneficio da questo nuovo  business: dai  semplici  distributori automatici  per stupefacenti (che immaginiamo  corazzati) fino a sistemi idroponici per far crescere le pianticine nell’acqua.

Naturalmente, quando si parla di introiti, anche il governo  vuole la sua parte: nel caso  degli  Stati Uniti  la tassazione sui prodotti a base di  marijuana arriverà fino  al 40%: una percentuale molto  alta che certo non aiuterà a sconfiggere la distribuzione illegale dello stupefacente.

Il punto è che non tutti  gli  americani  sono  concordi nella liberazione di  quella che, ancora oggi, viene considerata come l’anticamera per le droghe più pesanti: secondo un sondaggio  recente del Pew Research Center (agenzia apartitica che fornisce informazioni  su  questioni sociali, demografiche ed opinione pubblica)  ben il 45% degli  americana è contraria all’eliminazione del  divieto  di  commercio.

In questa battaglia tra i favorevoli e contrari  si inserisce una ricerca dell’Università del  Texas che dice sostanzialmente: l’uso protratto  nel  tempo  della marijuana riduce il volume della corteccia prefrontale implicata nella pianificazione dei  comportamenti  cognitivi  complessi.

Gli stessi ricercatori si premurano di  dire che ancora non è chiaro  se queste anomalie possono  causare deficit mentali oppure emotivi,  e se le stesse siano    legate piuttosto a fattori  genetici e ambientali che nell’uso prolungato della marijuana.

In Italia, dove la produzione di  cannabis terapeutica è affidata allo  Stabilimento  chimico farmaceutico  militare di Firenze, Gaetano  Di Chiara, farmacologo  presso l’Università di  Cagliari, parlando del principio  attivo  della cannabis e cioè il delta – 9 –  tetraidrocannabinolo (la cui  efficacia è potenziata dall’altro metabolita che è il cannabidiolo con proprietà sedativa, antinfiammatoria e antiepilettico) ha detto  che le piante coltivate oggi hanno il 15% in più di  THC e che il pericolo  di  assuefazione può essere grave e portare a casi  di overdose non mortali  ma egualmente pericolosi.

Dal punto  di  vista strettamente medico è poi Silvio  Garattini ad avvertire che l’uso  della cannabis provoca nei  soggetti più giovani  depressione e psicosi (sempre considerandone le dosi) e che il fumo  stesso una volta inalato  ha lo  stesso  effetto  tossico  delle sigarette.