CategoryStorie

Trentaquattro anni fa l’omicidio di Renata Fonte

 

Renata Fonte

Trentaquattro  anni  fa, il 31 marzo 1984, due killer uccisero Renata Fonte, assessora alla Cultura di  area repubblicana al Comune di  Nardò.

Il motivo  dell’omicidio era l’impegno  che lei  aveva profuso per difendere il territorio  di  Porto Selvaggio da speculazioni  edilizie (dal 2006 l’area è diventata il Parco  naturale regionale di  Porto  Selvaggio  e Palude del  Capitano).

Renata Fonte fu  tra le fondatrici di un comitato  nato per l’istituzione di un vero parco naturale che avrebbe posto  fine alle richieste degli  speculatori. Lei, che ebbe come mentore per un suo impegno politico lo  zio Pantaleo Ingusci  (repubblicano ed antifascista), fu  eletta nelle elezioni  comunali di  Nardò del 1982, nelle file dell’allora Partito Repubblicano Italiano, con 222 voti: un vero  successo  per una donna  che,  per questa sua passione politica, ne pagherà le conseguenze più gravi.

Le indagini  seguenti  all’omicidio  portarono  all’arresto  di due killer, di  due intermediari e di un unico  mandante: Antonio Spagnolo, compagno  di partito di  Renata Fonte, che sembrava aver commissionato il delitto semplicemente per prenderne il posto nell’assessorato lasciato vacante.

Tutto sembrava chiuso  quando un giovane cronista del  Quotidiano  di  Lecce, Carlo  Bollino, scriverà il libro  La posta in gioco in cui, attraverso una dettagliata indagine giornalistica, mette in luce che l’assassinio  di  Renata Fonte fu a causa di interessi  di  faccendieri  e politici  pugliesi collusi  con la mafia.

Dal libro  di  Carlo  Bollino  è stata tratta la sceneggiatura per il  film omonimo del 1988 diretto  da Sergio  Nasca ed interpretato  da Lina Sastri, Turi  Ferro e Vittorio  Caprioli.

 

 

Due uomini dai destini molto diversi: Isaac Babel e Merian C. Cooper

 

Nel 1920, durante la guerra che vide contrapposte le nazioni  di  Polonia e Russia, Isaac Babel (Odessa, 1 luglio 1894 – Mosca, 27 gennaio 1940), giornalista e scrittore russo,   venne inviato al  fronte  come corrispondente di  guerra.

 

Da questa sua   esperienza  Babel ne trasse il materiale necessario  per scrivere  1920 Diary :  il resoconto della devastazione della guerra e  dei  soprusi  di  entrambi  gli  eserciti verso  la popolazione civile, specie quella di  origine ebraica in Ucraina e Polonia  orientale, tragedia che sentiva sua essendo  lui  stesso  ebreo.

Tra le pagine di  questo  libro è descritto l’  interrogatorio di Merian C. Cooper (Jaksonville, 24 ottobre 1893 – San Diego, 21 aprile 1973)  , un aviatore americano appartenente allo squadrone Kosciuszko  composto  da volontari in sostegno  dell’esercito polacco.

Merian C. Cooper  venne abbattuto il 26 luglio del 1920. Trascorse nove mesi di  prigionia in un campo  russo da cui  riuscì a fuggire prima della fine della guerra.

Ed è  a questo punto  che la storia vede i  due protagonisti  seguire il loro  destino: l’uno drammatico, l’altro pieno di  successi.

Isaac Babel  nel 1939 venne arrestato  con l’accusa di  spionaggio. Dopo un interrogatorio estenuante gli  venne estorta una confessione che lo porterà davanti al plotone di  esecuzione il 27 gennaio  1940.

Sua moglie, Antonina Pirožkova, conobbe la fine di  suo marito dopo  15 anni.

Il 23 dicembre 1954, dopo  la morte di  Stalin, Isaac Babel  venne pubblicamente riabilitato e quindi  scagionato  dalle accuse che lo portarono  alla sentenza di morte.

Ben diverso fu invece il destino  di Merian C. Cooper: con il suo  amico Ernest B. Schoedsack fondò una casa di  produzione cinematografica dapprima specializzata in documentari  e, in seguito, in quella di  film all’epoca spettacolari.

Il più famoso tra questi  quello  del 1933: King Kong .

Nel 1954 gli  verrà assegnato l’Oscar per la carriera.

 

 

 

Demenzaville? No, il suo nome è Hogeway

– Connessioni naturali – /©24Cinque

 

Demenzaville?

È evidente la strizzatina d’occhi, segno  di  facile ironia,   che il giornalista di  Panorama ha voluto condividere con  il lettore chiamando in questo modo  Hogeway, il sito a pochi  chilometri  da Amsterdam  dove, dal 2012,  si   sperimenta una nuovo metodo per dare sollievo alle persone affette da Alzheimer e alle loro  famiglie.

Articolo  di  Panorama su Hogeway

 

Hogeway è piccolo  villaggio, quasi  della dimensione di un quartiere di una metropoli, con quello  che si può trovare  normalmente in esso: una chiesa, un mini – market,  negozi ed abitazioni.

Il concetto  che è alla base del progetto di  Hogeway voluto dalla Vivium Care Group,   finanziato in parte   dal governo  olandese, è quello di liberare il paziente affetto  da Alzheimer  dagli  angusti  spazi di una casa di  cura, per far si  che egli  viva l’esperienza di  quella vita normale che ha perso con l’avanzare della malattia.

Ad Hogeway  tutto è  finto, nel  senso  che i malati non sono  abbandonati  a loro  stessi, ci mancherebbe, solo che il personale sanitario non indossa il camice d’ordinanza, quanto piuttosto la divisa di postino, quella di uno  spazzino, oppure finge di  essere un negoziante o  un addetto del cinema.

È  una  simulazione della realtà già vista nel  film  Truman  Show, dove il fine del reality è quello di  attirare il lato  voyeuristico dello  spettatore per uno  scopo  puramente   commerciali mentre, per quanto  riguarda Hogeway, si potrebbe quasi  affermare di  essere di  fronte ad un esperimento di  reinserimento sociale.

Ovviamente nulla viene fatto in maniera gratuita, perché Vivium è pur sempre società imprenditoriale che deve badare agli utili, ma, in questo  caso, il welfare olandese interviene con aiuti sostanziosi per le famiglie che ne necessitano in base al reddito.

In Italia sarebbe possibile un progetto  simile?

In parte si, perché la nostra imprenditorialità non è seconda a nessuno. In parte no, perché la scena politica che viviamo è quella sterile, basata sui meccanismi  autoreferenziali  dei partiti, lontana dai  veri  bisogni  della cosiddetta gente.

 

 

 

I regnanti di Tavolara

La famiglia Bertoleoni in una foto d’epoca

 

In questa foto  d’epoca figura la famiglia reale dei Bertoleoni.

I Bertoleoni, in effetti, non figurando negli  Elenchi Nobiliari  ufficiali del regno  d’Italia, non potrebbero  essere considerati dei nobili, ma si  sa un titolo  non si  nega a nessuno.

Loro  stessi, a riprova del sangue blu  che scorre nelle vene, riportano  che la foto di  famiglia ad inizio  articolo  è la stessa che è esposta a Buckingham Palace, tra le immagini  di  tutte le dinastie del mondo.

Se fosse vero, e forse lo è, il loro ex – regno era quello più piccolo del mondo, in quanto occupava la superficie di un isola della Sardegna: Tavolara.

La famiglia è originaria di  Genova che, dalla Corsica,  si  trasferì dapprima nell’arcipelago  della Maddalena ed infine sull’isola di  Tavolara.

Siamo all’inizio  dell’Ottocento, quando Giuseppe Bertoleoni arriva a stabilirsi  a Tavolara dedicandosi  all’allevamento  di  capre.

La leggenda, per metà storia, inizia quando re Carlo  Alberto di Savoia, trovandosi  nel 1836 a Tavolara, volle donare, forse per simpatia o forse per altro  di cui non si  conosce la verità, il feudo di  Tavolara a Giuseppe Bertoleoni.

L’atto non arrivò mai alla prefettura di Sassari, ma questo non impedì che l’investitura fosse riconosciuta verbalmente dai diretti interessati e, magari ingigantita da altre voci non propriamente disinteressate (la nobiltà ha bisogno  di una corte).

Con il figlio  di  Giuseppe Bertoleoni, Paolo I, il regno  di  Tavolara ebbe il suo massimo numero  di  abitanti: sessantuno persone (non è dato  sapere se pagassero  qualche forma di  tassa al  regnante).

Il regno  termina con la morte di Carlo II di  Bertoleone nel 1993.

Oggi  la ricchezza dell’isola di  Tavolara è nel  turismo  e nel  demanio militare.

Almeno fino  al 1994 discendenti  della famiglia Bertoleoni gestivano  un ristorante a Tavolara.

 


 

 


 

Le contro olimpiadi nella Barcellona del 1936

Manifesto dell’Olimpiade popolare di Barcellona nel 1936

 

Il 1° agosto  1936 si  aprirono  a Berlino  i  Giochi  della XI Olimpiade.

Nel 1931, due anni prima della presa di potere da parte del partito  nazista in Germania, Barcellona, in rappresentanza della Spagna, venne scartata a favore di  Berlino per ospitare i Giochi  olimpici.

Per protesta contro il regime nazista sia la Spagna che la Russia boicottarono  i  giochi.

La Spagna andò oltre organizzando un evento parallelo, cioè un’Olimpiade popolare, con sede proprio  a Barcellona.

Questo  evento  era ispirato  alle Olimpiadi Internazionale dei Lavoratori  organizzato negli  anni  tra il 1925 e 1937 dalla Socialist Workers’ Sport International (SASI), come evento  alternativo alle Olimpiadi.

La SASI era sostenuta dai partiti  socialdemocratici e dalla Federazione Internazionale dei  Sindacati.

L’Olimpiade popolare di  Barcellona avrebbe dovuto  svolgersi  una settimana prima dell’evento  berlinese: 6.000 atleti, provenienti  da 22 nazioni compresa la Russia, si  erano  registrati per i  giochi  alternativi, tra di loro esuli  ebrei fuggiti  dai  regimi  nazi – fascisti.

Una curiosità fu  quella che tra le competizioni erano  incluse i  giochi  degli  scacchi, danze popolari ed il ping  pong.

Il 17 luglio del 1936 scoppia la Guerra civile spagnola, i Giochi popolari  vengono  annullati e duecento  atleti  resteranno in Spagna per combattere tra le fila repubblicana contro le forze nazionaliste del  generale Francisco  Franco.

Una curiosità che è pure una verità storica, riguarda la vittoria di Jesse Owens e della reazione di  Hitler nei  suoi  confronti: non è vero  che Hitler si sia rifiutato  di  stringere la mano  all’atleta americano  di colore, anzi Jesse Owens nella sua autobiografia (The Jesse Owens Story) dichiarò che:

Dopo essere sceso dal podio del vincitore, passai davanti alla tribuna d’onore per rientrare negli spogliatoi. Il Cancelliere tedesco mi fissò, si alzò e mi salutò agitando la mano. Io feci altrettanto, rispondendo al saluto. Penso che giornalisti e scrittori mostrarono cattivo gusto inventando poi un’ostilità che non ci fu affatto.

Le vittime di Enewetak

Militare americano durante l’operazione di bonifica dell’atollo di Enewetak / foto: Tim Snider

Eniewetok  (nella  lingua locale delle isole Marshall)  è un atollo corallino composto  da una quarantina di isole nell’oceano  Pacifico.

Nella seconda guerra mondiale l’atollo era sotto il controllo  del  Giappone, alla fine del periodo  bellico passò sotto  l’amministrazione americana.

Immediatamente dopo il conflitto iniziò una progressiva evacuazione degli  abitanti  dalle isole, in quanto  gli  Stati Uniti trasformarono Eniewetok in un poligono  di  tiro per testare gli ordigni  nucleari.

I test iniziarono  nel 1948 e terminarono  nel 1962: il 31 ottobre del 1952 venne fatta esplodere la prima bomba all’idrogeno con una potenza pari a 10.4 Megaton cioè mille volte più potente di  quella sganciata su  Hiroshima.

Solo  nel 1977 il governo  degli  Stati Uniti iniziò la bonifica dei  materiali  radioattivi dal  suolo  delle isole.

Ed è a questo  punto che inizia il dramma  per molti  soldati  americani  chiamati ad operare per le operazioni di  bonifica.

Nelle foto  d’epoca si  vedono  soldati  vestiti  con tute protettive e respiratore: peccato che quel  tipo di  attrezzatura veniva indossata solo per le esigenze di  scena in documentari  e fotografie volute dalle troupe cinematografiche dell’esercito  americano.

Dopodiché gli uomini, restituita l’attrezzatura di protezione, passavano  al lavoro  di  bonifica indossando  solo  pantaloncini  e t-shirt.

Tra il 1977 ed il 1980 furono  circa 4.000 i  soldati impiegati a Eniewetok: centinaia di loro, in seguito, hanno avuto problemi di  salute e tumorali, nonché difetti gravi presenti alla nascita dei loro bambini.

L’esercito  ha sempre negato una connessione tra le malattie e la bonifica, adducendo  che le misure di  sicurezza erano  quelle adeguate ad un livello di  radiazione ben al  di  sotto della soglia di pericolosità.

Il Congresso riconobbe un risarcimento  solo per quei  militari che operarono  durante i  test atomici dal 1950 in poi, mai per quelli  che, più di  vent’anni  dopo, intervennero nella bonifica.

Questa storia ricorda le vittime da uranio impoverito tra i militari italiani impiegati nelle missioni  internazionali a partire dalla guerra nei  Balcani.


 

L’esplosione della prima bomba ad idrogeno  chiamata Ivy Mike


 


 

 

 

L’onda assassina di Boston era melassa

Un immagine del disastro di Boston del 15 gennaio 1919 Credit: Boston Public Library

Un immagine del disastro di Boston del 15 gennaio 1919
Credit: Boston Public Library

 

Se non fosse che nell’incidente accaduto  a Boston il 15 gennaio  del 1919 vi  furono  21 vittime e 150 feriti, oltre ai  danni subiti  da edifici, si potrebbe pensare che quello che accadde sia stata la trama di una sceneggiatura di un b-movie fantascientifico.

In effetti, l’onda di  melassa alta più di  sette metri, che si  riversò in una zona della città di  Boston, ricorda la massa gelatinosa del  film Blob –  Fluido  mortale diretto  da Irvin S. Yeaworth Jr. nel 1958.

Ma cosa è successo  quel  giorno di novantasette anni fa?

La causa fu il crollo  di un serbatoio  di  stoccaggio  della melassa alto 15 metri  e largo 27 metri: da esso  fuoriuscirono  nove milioni  di litri della sostanza che si  riversò nelle strade adiacenti  ad una velocità di 15 metri  al  secondo.

Le vittime invischiate nel  fluido  subirono una morte atroce, quasi  come se fossero  stati inghiottiti  dalle sabbie mobili, altri nel crollo  delle abitazioni che non resistettero alla forza dell’onda.

Oggi  gli ingegneri hanno fornito la probabile causa del  crollo  del serbatoio: due giorni  prima della disgrazia, nel  serbatoio  furono immessi litri  di melassa calda su  di uno  strato  più freddo. La mescolanza tra i liquidi caldi  e freddi  generarono forze fluidodinamiche che si  riversarono  sulle pareti della cisterna facendola collassare.

La dimostrazione di  questa ipotesi  sarà presentata  in un prossimo  convegno della American Physical Society of Fluid Dynamics a Portland, Oregon.

 


 

Ricordando  Steve McQueen protagonista principale di   Blob – Fluido  mortale 

 

 


 

La Germania al Polo Nord durante l’ultima guerra mondiale

resti  della base metrologica tedesca

Resti della base meteorologica a tedesca

Per una volta gli  archeologi  nella loro  ricerca non hanno portato  alla luce reperti o strutture vecchi  di  secoli, ma resti di una base segreta tedesca risalenti  alla seconda guerra mondiale.

Nell’isola di  Alexandra Land, nel  mare di Barents a 1.100 chilometri  dalla città di  Arkhangelsk – Polo Nord), un team di  ricercatori  russi è riuscita ad esplorare una stazione meteo tedesca risalente al 1943.

L’esplorazione, avvenuta in agosto, è stata possibile perché in quel periodo il clima è decisamente più caldo (ma siamo  sempre al Polo Nord) e parte del ghiaccio  e della neve che ricopriva la base militare tedesca si è sciolta.

Tra i reperti sono  stati  ritrovati strumenti scientifici,  uniformi, armi  e munizioni nonché, curiosamente, tra i testi  di  meteorologia anche quello di un classico  dei  romanzi di  Mark Twain: Tom Sawyer.

La base che, in piena operatività, contava tra meteorologi  ed operai  una decina di  persone, venne evacuata nel 1944.

Essa era parte di una rete segreta di  stazioni  artiche che monitoravano  le condizioni  climatiche del  nord Europa ai  fini  delle operazioni  strategiche dell’esercito tedesco.

Tra le curiosità, oltre ai  gusti  per i classici di Mark Twain, è quella di  aver trovato delle scatole di  sardine provenienti  dal  Portogallo, con etichette in inglese e vendute nel  mercato Americano. Si presume che a questa dieta, gli occupanti  della base, abbiano  aggiunto  anche la carne proveniente dall’uccisione di  orsi  polari (contraendo la trichinellosi).


 

Abir Qesheth: da Israele con furore

230916

 

Parafrasando si potrebbe dire: <<Paese che vai,  arte marziale che  trovi>>.

Taekwondo, Karate, Ju Jitsu, Kung Fu: l’elenco delle “arti  marziali” è molto  lungo e tra quelle citate all’inizio, certo  tra le più conosciute,  si possono  trovare alcune praticate da poco  adepti e la cui  efficacia è da prendere con le dovute cautele.

Come la Abir Qesheth considerata un’antica arte marziale ebraica tramandata da guerriere yemeniti.

Tanto  antica, però, non sembrerebbe, visto  che proprio in Israele qualcuno  avanza dei  dubbi, soprattutto per il fatto che il suo “inventore”, o  colui  che dice di  essere l’erede di  tale disciplina, è un rapper di nome Yehoshua Sofer, con una certa fama in passato e sotto lo pseudonimo  di Nigel Ha’Admor (più o meno  traducibile in “Nigel il docente”).

Per quanto  riguarda la qualità di  rapper di  “Nigel il docente”, basta ascoltare  il brano dal  titolo “l’hummus rende stupidi” per farsene un’idea (qui  il brano tratto da YouTube).

Tra l’altro, se siete interessati a questa pietanza, sul Blog di Caterina ne troverete la ricetta.

Invece, nel  video  seguente, lo stesso Yehoshua Sofer da una dimostrazione delle tecniche fornite dalla Abir Qesheth: basta crederci e, nel  frattempo,  domandarsi se per praticarla è necessario farsi  crescere la barba.



 

Ma Indiana Jones ha la soluzione più efficace (e brutale) per togliersi  d’impaccio da brutte situazioni 

 

Arturo Toscanini: l’arte contro il nazi-fascismo

Arturo Toscanini

Arturo Toscanini

 

Il celebre direttore d’orchestra Arturo  Toscanini aveva avversione per il nazi-fascismo tanto  che, nel 1936, incontrando il violinista polacco (di origine ebrea) Bronislaw Hubermann, fondatore della Palestina Symphony Orchestra, decise di  condurre i concerti  dell’Orchestra dell’amico  violinista.

Questo fu uno  dei modi  per permettere la salvezza di  centinaia di musicisti  ebrei in Europa.

Lo  scrittore Josh Aronson, nel  suo nuovo  libro Orchesta of Exiles basato  sul film documentario omonimo  (2012), racconta la storia meno  nota del direttore d’orchestra italiano.

Già tre anni prima, cioè nel 1933, Toscanini  si  rifiutò, nonostante le lusinghe di  Hitler, di  condurre il Bayreuth  Festival esaltazione del nazismo  attraverso  la musica.

 

 

 

© 2024 24Cinque

Theme by Anders NorénUp ↑