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“Aya”: 39 minuti per cercarsi

Locandina del  cortometraggio  israeliano  "Aya"

Locandina del cortometraggio israeliano “Aya”

Trentanove minuti: è questa la lunghezza del film israeliano “Aya” candidato Academy Award nella categoria Best Live Action Short (premio assegnato al cortometraggio inglese “The Phone Call”).

Aya è il nome di una giovane donna israeliana che, aspettando l’arrivo di un conoscente all’aeroporto  Ben  Gurion di Tel  Aviv, si vede consegnare da un conducente di auto un cartello con sopra scritto il nome di “Mr. Overby.

Quando lei si accorgerà che l’autista è sparito, decide impulsivamente di sostituirsi a lui aspettando il cliente: Mr. Overby, il quale  è un ricercatore di musica danese che deve recarsi a Gerusalemme per partecipare come giudice ad un concorso pianistico.

La riservatezza dell’uomo fa da contraltare alla spigliatezza di Aya ma, per entrambi, il viaggio  sarà l’occasione per aprirsi intimante l’uno all’altra.

La bellezza di  “Aya” sta proprio in questa ricerca di contatto introspettivo fra due persone nell’arco  di  tempo  di un viaggio in auto.

Il grado d’intimità raggiunto,  e ben   raccontata nel  film, è anche  forse  dovuto  al  fatto  che i due registi, Mihal Brezis e Oded Binnum, sono nella vita reale marito  e moglie.

Ad interpretare Aya è stata chiamata l’attrice francese Sarah Adler, mentre per il ruolo  di  “Mr Overby” l’attore danese Ulrich Thomsen.

 

 

 

“Timbuktu”: una censura ingiustificata

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Timbuktu del regista mauritano Abderrahmane Sissako, film candidato al  premio  Oscar nella categoria “miglior film in lingua straniera”  in programmazione nelle sale italiane dal prossimo febbraio, parla della brutalità del jihadismo nei  confronti  delle popolazione  del  Mali,  anch’esse di  religione musulmana.

Nella trama un tranquillo villaggio del nord del Mali vive sotto il terrore della sharia applicata senza mezzi  termini  dai  fondamentalisti islamici: eppure, nonostante questo  atto  di  denuncia, in Francia, a seguito  delle tragica vicenda di Charlie Hebdo, il film è stato  ritirato dal cinema “City  Casinò” di Villiers-sur-Marne (un sobborgo  di  Parigi).

La motivazione di tale decisione è data dal  fatto che il quartiere, densamente abitato  da nordafricani, ha dato i natali a Hayat Bouneddiene compagna del terrorista Amedy Coulibaly.

Il sindaco  di Villiers-sur-Marne, Jacques-Alain Benisti,  ha motivato  tale decisione adducendo  al fatto che la pellicola poteva ingenerare nei più giovani il desiderio  di  emulare il modello dei  jihadisti.

Peccato  che Timbuktu  sia stato premiato  a Cannes e, in seguito, proiettato  sia a Parigi che in altre e innumerevoli  città francesi, senza che mai  vi  fosse stato un incidente di  matrice religiosa.

Dietro  alle proteste dei  social  media, Benisti  ha rivisto  le sue posizioni promettendo  che Timbuktu sarà di nuovo  riprogrammato, nel  contesto di un dibattito con rappresentanti  religiosi della fede cristiana, ebrea e mussulmana.

 

 

 

The Pin

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Molto probabilmente non vedremo mai i cinema italiani proiettare il film The Pin. Questo non solo perché Checco  Zalone, in attesa dell’immancabile cine-panettone di Natale, ha conquistato  gli  schermi  nostrani con “Sole a catinelle”, attraverso una campagna di  stampo militare che avrebbe fatto invidia a  Carl von Clausewitz, ma perché The Pin, oltre che essere distribuito per il mercato  americano, è girato in lingua yiddish.

È il secondo  film americano, in settant’anni, ad utilizzare questa lingua germanica parlata dagli  ebrei originari dell’Europa orientale. La trama, delicata è nel frattempo anche molto  semplice, narra di Jacob, custode di un obitorio, che si  ritrova davanti al  cadavere di Leah, una ragazza ebrea che lui salvò dai nazisti  nella Lituania del 1941. La storia si  dipana attraverso flashback che, legando presente e passato, il senso  di paranoia, tragedia ma anche sentimento, che i protagonisti  vivono durante il periodo  bellico.

Il regista di  The Pin è Naomi Jaye.

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